ARCHEOASTRONOMIA LIGUSTICA

 

 

Pubblicato in: Atti del VII Seminario A.L.S.S.A. di Archeoastronomia, Genova 24 aprile 2004, pp. 4-30.

 

 

CASISTICA DI ERRORI IN ARCHEOASTRONOMIA

 

Giovanni Lupato, Mario Codebò    

 

 

CASISTICA DI ERRORI IN ARCHEOASTRONOMIA - 1

Giovanni Lupato

 

 

Presenterò oggi una relazione su una mia indagine di stampo scettico, conclusasi lo scorso anno e riguardante le tesi archeoastronomiche concernenti il Veneto. Inizierò con una breve premessa per poi entrare nel vivo del resoconto del mio lavoro.

Credo che le tesi di cui proporrò ora la confutazione abbiano avuto una loro grande importanza e positività per l’entusiasmo che hanno indotto nei confronti dell’archeoastronomia in Italia a partire dai primi anni ‘80, e perché hanno dato l’impulso iniziale e lo stimolo a ricerche sistematiche in questo settore. Se ora queste teorie vanno a cadere, ritengo che ne rimanga comunque qualcosa di utile in merito al metodo di misurazioni molto precise col teodolite e soprattutto alla comprensione che, in un ambito difficile come quello dell’archeoastronomia, è utile una prudenza non solo predicata da un singolo, ma anche messa realmente in pratica con il confronto e la discussione. Solo dalla discussione  può emergere l’oggettività e solo il confronto, a volte serrato, può finalmente dare il credito definitivo in una materia difficilmente falsificabile come l’archeoastronomia. Credo inoltre che in qualsiasi ambito di attività umana si possa muovere un ricercatore, che per lui sia utile la conoscenza dei possibili errori. La stessa casistica di errori, finalmente conosciuti e catalogati, può rappresentare un’utile conoscenza per chi si cimenti in un campo di ricerca che è caratterizzato da molte insidie.

A livello di metodo mi sono servito molto schematicamente, in una prima fase, del cosiddetto “Rasoio di Ockham”, ho cioè cercato di valutare se le spiegazioni date erano le più semplici e ragionevoli. Questa prima discriminante porta a riconoscere se una tesi può essere o non essere verosimile. In una seconda fase ho sottoposto la stessa teoria a una falsificazione, seguendo le indicazioni di Popper. In alcuni casi ci sono riuscito producendo documenti storici in antitesi con la teoria archeoastromica. In questo caso rimango naturalmente disponibile al contraddittorio: una falsificazione può essere a sua volta falsificata, e in pratica chi vuol continuare a sostenere una tesi confutata da un documento oggettivo può solo cercare di produrne un altro. A fronte di una prova documentale non sono ammessi richiami a princìpi d’autorità o fumose congetture. Non sono un missionario e non mi posso far carico di cercare di convincere chi adotta schemi che rifiutano di riconoscere documentazioni oggettive.

Un’ultima osservazione: le confutazioni che proporrò non possono essere generalizzate ad altre ricerche di archeoastronomia: si vedrà in seguito quali errori nascono dall’uso di una logica induttiva, e non si vuole certamente ripercorrere lo stesso schema negativo.

A metà degli anni ‘80 del secolo scorso, veniva reso noto che il Veneto era disseminato di osservatori solstiziali di epoca preistorica spesso di dimensioni ciclopiche e dalla costruzione e tracciamento addirittura sofisticato ed affascinante. Si distinguevano soprattutto tre esempi: un sistema di quattro terrapieni a Biadene, un grande recinto quadrangolare a Castello di Godego, un terrapieno a ferro di cavallo a Veronella. Altre “opere” erano da ritenersi minori e derivavano concettualmente da queste.

Già mi aveva colpito la mancanza più totale di riferimenti astronomici nelle opere fittili o metalliche che potevano essere coeve ad una civiltà potenzialmente tanto evoluta e organizzata da poter costruire tremila anni fa opere tanto imponenti: ad esempio ad Este, in tutte le sale del museo dedicato in buona  parte ai paleoveneti ricordo di aver cercato assolutamente a vuoto simbolismi astronomici. Mi meravigliava inoltre che notizie tanto sensazionali non fossero state divulgate col massimo risalto. Ma le mie osservazioni di stampo scettico cominciavano a prendere consistenza quando mi accorgevo, che perlomeno due degli allineamenti proposti a Biadene potevano avere una spiegazione ben più semplice della serie dei quattro osservatori solari: i terrapieni erano infatti disposti a due a due sulle ripe del paleoalveo del Piave: erano le stesse ripe ad avere un naturale allineamento solstiziale, e se in una qualsiasi epoca si fossero costruiti dei punti di osservazione sul pianoro sottostante, questi avrebbero avuto forzatamente un allineamento astronomico.

In un’altra occasione mi ero recato a Castello di Godego con Patrick Moore: mentre spiegavo a questi la serie degli allineamenti della struttura, mi accorgevo che egli osservava e fotografava solo un piccolo terrapieno a margine dei grandi aggeri: il grande divulgatore inglese non pareva prendere nemmeno in considerazione che una struttura di quelle dimensione e in tale stato risalisse all’Età del Bronzo.

 

1. Le Motte di Castello di Godego.

A questo punto iniziava la mia indagine proprio dalle Motte di Castello di Godego (fig.1): a cavallo del 1980, in una grande struttura quadrangolare originaria di quattro argini lunghi ciascuno circa 230 metri (attualmente ne esistono tre), ci si era accorti di una buona precisione dei loro orientamenti astronomici (equinoziali e solstiziali), per cui si era ipotizzato che la struttura fosse un grande osservatorio solare. Ritrovamenti archeologici attorno al 1985 avevano fatto datare la struttura all’Età del Bronzo. Inoltre la stessa struttura era orientata diversamente dalla centuriazione romana ancora ben visibile nella zona circostante (siamo vicini alla via Postumia), e il diverso orientamento delle Motte rispetto alla centuriazione aveva fatto supporre che i romani avessero rispettato una costruzione sacra preesistente. Esisteva una altro particolare non di poca importanza: si nota nella fotografia una stradina che ha lo stesso orientamento di due argini della struttura, e per coerenza (e sopravvivenza dell’ipotesi archeoastronomica) si era supposto che tale stradina dovesse essere coeva al grande osservatorio solare.

A questo punto, (con un ulteriore dubbio: non mi erano noti altri esempi in cui i romani, nel tracciamento di una loro centuriazione, avessero rispettato un monumento preesistente), prendevo in mano la carta topografica della zona. Dalla tavoletta IGM (fig.2) risultava immediatamente evidente che l’orientamento solstiziale delle Motte si ripeteva anche in altri particolari limitrofi, strade e canali. Lo stesso confine tra le province di Padova e Treviso, si sovrapponeva alla stradina di cui sopra, naturalmente con lo stesso orientamento. Tale orientamento è quello della linea di displuvio e di massima pendenza (riscontreremo questa coincidenza in quasi tutti i siti “archeoastronomici” del Veneto). Inoltre si trovavano nella stessa cartina altri argini nel bel mezzo della campagna. La mia attenzione andava allora alle caratteristiche orografiche della zona, che offre caratteristiche ben precise: situata poco a monte della fascia di risorgiva, tale zona storicamente soffriva di cronica mancanza d’acqua e allo stesso tempo era soggetta a improvvise e violente inondazioni dal vicino fiume Brenta (brentane).

 

figura 1: veduta aerea delle Motte di Castello di Godego (Foto Giovanni Lupato)

 

Iniziava allora la mia perlustrazione diretta; a poca distanza dalle Motte fotografavo questi due grandi terrapieni (fig.3) che erano serviti per la realizzazione di una peschiera di pertinenza di una villa veneta. Un altro terrapieno (fig.4) serviva ad alzare il livello di un piccolo canale in corrispondenza di un mulino (con funzione di sega idraulica) ancora di epoca veneziana. All’incrocio della “stradina” con la via Postumia fotografavo un capitello (fig. fuori testo, a richiesta), ancora una volta databile al 18° secolo. Cosa ci faceva un simbolo cristiano all’incrocio tra una strada romana e una via “preistorica”? Mi sembrava un anacronismo. L’innesto della stessa stradina con l’argine di nord-ovest delle Motte mi rivelava che si trattava in realtà di una canaletta, con tanto di chiusa (fig.5). Mi chiedevo allora se la stessa “stradina preistorica” non potesse essere stata in realtà nient’altro che una canaletta scavata nel 18° secolo e poi parzialmente interrata. Con questo interrogativo mi recavo a colpo sicuro all’Archivio di Stato di Treviso dove chiedevo una documentazione sulle canalizzazioni del 18° secolo. Mi veniva consegnato un libro sulla Podesteria di Castelfranco Veneto dove trovavo la riproduzione di una grande tavola veneziana della seconda metà del 18° secolo (fig.6; le dimensioni originali sono di circa cm. 230 x 220), in cui sono rappresentate, con fine dettaglio (la scala corrisponde all’incirca a 1:6500) le derivazioni delle rogge dal fiume Brenta. Si trattava di evidenziare le singole derivazioni per rispondere alle richieste d’acqua per irrigazione da parte dei proprietari dei beni incolti (iniziava la coltivazione del mais, e si accenna a voler realizzare qualche risaia), e veniva disegnato lo stato di fatto (fig. 7) proprio in funzione ai nuovi interventi da realizzare.
 

figura 2:  tavola IGMI della zona delle Motte di Castello di Godego. (Elaborazione Giovanni Lupato)

 

figura 3: i due grandi terrapieni (Foto Giovanni Lupato)

 

figura 4: terrapieno con mulino (Foto Giovanni Lupato)

 

figura 5: canaletta con chiusa (Foto Giovanni Lupato)

 

Questa mappa è estremamente importante perché raffigura le Motte nel 18° secolo e la loro pianta ha forma ovale e non quadrangolare. La stessa stradina vista sopra, è un corso d’acqua, derivante dalla Roggia Moranda: ha con un corso molto diverso da quello rettilineo e attuale e all’interno delle Motte il suo corso è addirittura sinuoso. Mi recavo all’archivio di Stato di Venezia dove fotografavo in particolare  l’originale (fig. 8). Le Motte (cui in questa mappa viene data origine medievale)  poco dopo la metà del 18° secolo avevano forma ovale, e decade quindi del tutto l’ipotesi archeoastronomica  per il semplice fatto che la attuale forma quadrangolare è risultato di lavori seguenti a tale epoca e risalenti probabilmente alla fine dello stesso secolo. (Chi  vuole continuare a sostenere la tesi di partenza dovrebbe cercare di produrre un documento storico, possibilmente di grande dimensione e fine dettaglio, che la dimostri). Da un altro testo (fig.9) trovavo un’altra piccola raffigurazione delle Motte, che seppure schematicamente rappresenta un cerchiolino. Ma a parte la mappa veneziana vista in precedenza esistevano molti indizi che dovevano portare ad escludere la tesi archeoastronomica.

 

figura 6: mappa della Podesteria di Lanfranco Veneto (Foto Giovanni Lupato)

   

figura 7 (Foto Giovanni Lupato)

figura 8 (Foto Giovanni Lupato)

 

figura 9 (Foto Giovanni Lupato)

 

In primo luogo non si capisce come un terrapieno alto al più quattro metri potesse essere utilizzato per visualizzare l’orizzonte in un luogo dove la ricerca bioarcheologica ha dimostrato esisteva una foresta di querce e faggi, alberi di cui dobbiamo supporre un’altezza di una trentina di metri. In secondo luogo in direzione nord-ovest la visuale incontra i rilievi dell’Altipiano di Asiago, per cui il tramonto del Sole al solstizio estivo risulta spostato di diversi gradi rispetto a quanto ipotizzato (!). I singoli argini (fig.10) non si congiungono fra loro con un angolo preciso, come ci si dovrebbe aspettare da un osservatorio costruito per un fine preciso, ma con un raggio di curvatura di diverse decine di metri.

 

figura 10 (Foto Giovanni Lupato)

 

Una mappa del 1900 (fig.11) del geologo Tellini (importante perché mostra quattro lati della struttura, anziché tre), mostra le Motte già con pianta attuale (la stessa forma è documentata nel catasto austriaco della metà dell’800), ma si nota, che  mentre gli allineamenti sud-est nord-ovest rientrano nel margine di errore di 3° previsto nella tesi, gli allineamenti sud-ovest nord-est differiscono di ben 8° e questo non sembra corrispondere a  un criterio sufficientemente restrittivo. Nella stessa tavola si nota un altro particolare: sul lato di sud est si notano vari tumuli di terreno, quasi che l’argine corrispondente non sia mai stato completato (forse i lavori si interruppero per la campagna napoleonica del 1797).

 

figura 11 (Elaborazione Giovanni Lupato)

 

Durante lo scavo del 1985 si sono evidenziati lavori di rinforzo dell’argine, con pali infissi nel terreno e tavole unite orizzontalmente. Ci si chiede come sia possibile non considerare che anche nell’Età del Bronzo doveva esistere il senso di economicità del lavoro: perché tagliare tavoloni con i poco adatti strumenti dell’epoca quando si era all’interno di un territorio che, come documentato, era ricchissimo di legname?

 

figura 12 (Foto Giovanni Lupato)

 

Veniamo infine all’errore più grande. Sin dagli anni Settanta era nota l’esistenza di un abitato dell’Età del Bronzo appena all’esterno dell’area in cui si sarebbero costruiti i grandi argini. Tale abitato era tangente alla zona centrale dell’argine di nord est (fig.12). Dove si svolte le campagne di scavo a metà degli anni ’80, e finalizzate a datare le Motte? Ebbene, su un perimetro totale di circa 930 metri le due campagne di scavo si sono svolte entrambe nel punto di contatto del (conosciuto) abitato preistorico con tale argine, ovvero nella zona in cui i ritrovamenti dell’Età del Bronzo erano più probabili, e in un certo senso avrebbero inquinato la datazione stessa. Con un criterio dettato da maggior prudenza, forse si poteva scavare in qualsiasi altra zona della grande struttura, ma certamente non proprio lì.
Qui allora si rileva come sia importante per l’archeoastronomo, suggerire all’archeologo o allo studioso di storia locale, di cercare di contrastare le proprie tesi: solo così alla fine ne usciranno (eventualmente) rinforzate. Non bisogna chiedere la verifica, ma occorre chiedere la (forse ben più difficile) falsificazione.
A titolo di cronaca, per mostrare la bontà della mappa settecentesca qui prodotta, si rileva come, esattamente nel luogo dove la stessa mappa mostrava la canaletta all’interno delle Motte, gli scavi archeologici hanno messo in luce un “silos canaliforme”.

 

2. Veronella Alta.

Nella campagna veronese, in comune di Veronella sorge un curioso terrapieno a forma di ferro di cavallo (fig.13) le cui dimensioni sono ancora una volta ciclopiche: lungo 300 metri nelle due direzioni, largo sessanta, alto al più due metri. La sua forma lo contraddistingue subito, ed appare quasi come un corpo estraneo in una centuriazione. La presenza di un canale di recente costruzione suggeriva all’archeoastronomo che la forma originale dovesse essere un ovale. Ne seguiva una affascinante e avvincente tesi in cui veniva ipotizzato un tracciamento rituale (fig.14), con una serie di riferimenti posizionati su un allineamento solstiziale e uno equinoziale.
Si fa notare che la forma ovale non esiste, ma tale forma può essere solo immaginata se si fa riferimento alla teoria della Gestalt  sulla percezione visiva. Come si vedrà in seguito nella sequenza iconografica il canale dal letto cementizio (denominato con l’acronimo LEB) non ha mai tagliato una figura un tempo ovale, essendo scavato lo stesso canale, parallelamente a canalizzazioni di diverse epoche, lungo un paleoalveo pleistocenico dell’Adige. Tale paleoalveo, come molte altre strutture della campagna veneta qui esaminate ha un orientamento coincidente con il sorgere del sole al solstizio invernale.

 

Figura 13: Veduta aerea del terrapieno a forma di ferro di cavallo di Veronella Alta. (Foto Giovanni Lupato)

 

Figura 14 (Foto Giovanni Lupato)

 

Anche in questo caso l’orografia darà una spiegazione determinante.

Una prima occhiata alla carta stradale della bella zona che non conoscevo, mi mostrava che il ridente paese di Veronella si trova a pochi chilometri dall’Adige. Proprio a questa altezza il grande fiume forma ad ogni sua ansa un isolotto oblungo. Andavo allora a visitare la zone chiedendomi se la forma particolare di Veronella Alta poteva essere stata originata da una dinamica fluviale. La prima impressione confermava questa ipotesi: non si trattava certamente di una pianura piatta ed uniforme, ma un po’ dovunque si notavano interazioni con i fiumi della zona, (Adige ed Alpone), che prima di essere arginati avevano variato più volte il loro corso. Lo stesso terrapieno di Veronella Alta, era delimitato da un fossato confortando l’impressione che si potesse trattare di una sorta di resto di meandro fluviale. Più approfondivo l’argomento e più l’ipotesi si rafforzava: all’archivio di Stato di Verona, trovavo questa bella mappa settecentesca (fig.15) della zona dell’Adige poco a monte di Veronella: vi si notano diversi resti di meandri la cui forma esterna poteva essere analoga a quella di Veronella. Trovavo poi nelle descrizioni scientifiche sull’orografia della zona, che l’Adige formava particolari strutture ellittiche, dette “dossi” della dimensione di qualche centinaio di metri e sopraelevate sulla campagna circostante: ne trovavo varie raffigurazioni presso lo stesso Archivio di Stato.

 

Figura 15 (Foto Giovanni Lupato)

 

A questo punto cominciavo a lavorare sull’ipotesi, di cui avrei poi avuto conferma e cioè che si fosse formato appunto uno di questi dossi e che sulla parte esterna di questo fosse stato elevato il terrapieno artificiale. Ma qual era l’epoca di questo intervento? Passavo alla ricostruzione storica. Una descrizione medievale documentava una Veronella contrapposta a una Palus Veronellae che faceva ancora pensare ad un sito sopraelevato su una palude più bassa: l’ipotesi archeoastronomica faceva già sorridere: chi può immaginarsi il tracciamento di una figura tanto grande e precisa su un suolo paludoso? Il primo documento che raffigura Veronella è questa mappa probabilmente dell’inizio del ‘700 (fig.16), in cui si nota la forma ellittica sì, ma con l’asse maggiore parallelo al paleoalveo dell’Adige, dunque in perfetta sintonia con l’ipotesi “dosso naturale” e in completa antitesi  con l’ipotesi archeoastronomica: da questa e dalle mappe successive risulterà evidente come la stessa struttura verrà aumentata di dimensione verso nord- est, e non certamente tagliata.

 

Figura 16 (Foto Giovanni Lupato)

 

È da notare che nel ‘500, i proprietari avevano commissionato un progetto di una villa ad Andrea Palladio e questo la dice lunga sull’amenità del luogo, sarà comunque molto importante la considerazione che la proprietà del sito è sempre stata di una famiglia nobile della zona e che la stessa proprietà è rimasta indivisa nei secoli. Alla fine del ‘700 (fig.17) si può notare un fossato affiancato da due linee continue e due filari di alberi: la doppia linea continua sembra avere un significato ben preciso: durante la Serenissima gli alvei dei fiumi appartenevano allo Stato, e questa raffigurazione potrebbe rappresentare proprio di un meandro fluviale, parzialmente interrato e quindi ristretto sulle due rive. Anche nel catasto austriaco di metà ‘800 (fig.18) viene confermato dai mappali esterni una diversa numerazione corrispondente a questa fascia  e un’altra ancora per il filare di alberi. È da notare che l’intera tenuta agricola ha un unico mappale, e sarà importante notare che la casa colonica è interna alla curvatura che esso sottende.

La tavoletta IGM di fine ‘800 (fig.19) mostra ancora, lungo il fossato curvilineo il particolare del filare di alberi. E’ da notare una cosa interessante, infatti notiamo per la prima volta una raffigurazione di elementi tridimensionali: sono disegnate le singole ripe dei fossati, ma ci accorgiamo altresì che non esiste alcuna traccia dell’imponente terrapieno a ferro di cavallo, proprio come se questo non esistesse ancora. Se ora esaminiamo documenti più recenti invece lo troviamo.
 

Figura 17 (Foto Giovanni Lupato)

 

Figura 18 (Foto Giovanni Lupato)

 

La mappa catastale in figura 20, datata 1939, mostra una suddivisione dei lotti combaciante con il terrapieno di cui all’ipotesi archeoastronomica; ma sappiamo che la proprietà è rimasta indivisa, e viene allora il dubbio che tale suddivisione catastale corrisponda ad un recente uso un po’ particolare del fondo.

 

Figura 19 (Foto Giovanni Lupato)

 

Figura 20 (Foto Giovanni Lupato)

 

La mappa IGM del 1972 (fig.21) ci mostra finalmente una evidenza tridimensionale del terrapieno di cui è rappresentato finalmente il lato interno. In questa mappa ci accorgiamo inoltre di alcuni ammucchiamenti di terreno lungo canalizzazioni appena a monte di Veronella Alta. Questo canale era stato scavato negli anni ‘20, ma notiamo altresì che tali ammucchiamenti non esistono lungo lo stesso canale appena più a valle. Dove era stato portato il terreno di risulta? Probabilmente proprio a Veronella Alta, a formare il terrapieno a ferro di cavallo di cui all’ipotesi archeoastronomica e combaciante con la variazione catastale del 1939.
 

Figura 21 (Foto Giovanni Lupato)

 

Ho trovato conferma anche dal diverso tipo di terreno che si trova sul terrapieno, e sul resto della tenuta di Veronella. Solo sul terrapieno si rinvengono molte tracce di argilla torbosa (secondo un geologo databile a meno di un secolo fa) ed è noto che proprio nella zona lungo il canale veniva estratta la torba fino agli anni 40. Anche questa aerofotografia (fig.22) del 1970, mostra una differenza troppo marcata del terrapieno dal resto della tenuta perché non si possa non pensare ad una trasformazione molto recente del suolo, caratterizzato da differenti coltivazioni. In questa immagine si nota con la linea rossa l’ovale di cui all’ipotesi iniziale, e con la linea nera il margine esterno del terrapieno. Risulta evidente che il margine interno del terrapieno (corrispondente alla variazione catastale degli anni ‘30) è stato disegnato a tavolino.

 

Figura 22 (Foto Giovanni Lupato)

 

Figura 23 (Elaborazione Giovanni Lupato)

 

A questo punto mi è stato possibile immaginare un sistema per tracciare tale curva così precisamente (fig.23): trovato l’asse di simmetria del paleomeandro delimitato dal fossato, e largo 320 metri, è bastato misurare su di esso una distanza di 160 metri dal fossato, per avere il punto dove piantare un paletto, centro da cui è stata tracciata una semicirconferenza di raggio 100 metri esatti. Anche l’unità di misura impiegata conferma ulteriormente che il terrapieno in oggetto è stato tracciato in epoca contemporanea.  Esiste un altro elemento molto interessante da considerare: la prima pubblicazione in cui si attribuisce al terrapieno di Veronella Alta  un’origine preistorica risale solo al 1960:  chi volesse cimentarsi nella falsificazione di quanto qui esposto non dovrebbe fare altro che trovare una qualsiasi documentazione che attesti l’esistenza di tale terrapieno prima del 1920: una struttura tanto imponente e tanto curiosa , in un luogo tanto particolare non avrebbe potuto sfuggire alla curiosità di qualcuno! Ho esposto questa stessa relazione in una conferenza organizzata dal comune di Veronella, e lo stesso Comune ha curato il bel volume in cui dopo le tesi archeoastronomiche è esposta la mia falsificazione. Credo che il non aver opposto una facile censura faccia onore a questa amministrazione che si è dimostrata  interessata più a comprendere la propria storia locale piuttosto che continuare a sostenere la tesi, che per certi versi poteva essere fruttuosa, di avere una Stonehenge nel proprio territorio comunale.

 

3. Necropoli di Mel.

A circa un chilometro dal centro di Mel, in provincia di Belluno, a fianco di una strada statale, si trova questa ricostruzione di una necropoli paleoveneta (fig.24) messa in luce a poca distanza dal luogo attuale agli inizi degli anni ‘60. Anche in questo caso è stata avanzata un’ipotesi archeoastronomica (fig.25), senza che purtroppo ci si rendesse conto che si trattava appunto di una ricostruzione eseguita a cura della Sovrintendenza Archeologica del Veneto poco prima del 1970. Tale ricostruzione è spostata rispetto al sito dello scavo archeologico, e anche la disposizione reciproca delle tombe è molto diversa da quella originale. Questi fatti sono facilmente constatabili da chiunque voglia interessarsi della cosa: è sufficiente recarsi nel vicino Museo archeologico nella bella piazza di Mel, per trovare esposti in bacheche ben curate sia le fotografie degli scavi, sia i disegni dei quaderni degli scavi del 1962 (fig.26), che testimoniano una disposizione delle tombe molto diversa dalla ricostruzione attualmente visibile. Le tombe originali, avevano il loro ingresso nella direzione del sorgere del sole nel giorno del decesso della persona sepolta, e questa tradizione si ritrova in altre necropoli paleovenete.

 

Figura 24 (Foto Giovanni Lupato)

 

Figura 25  (Elaborazione Giovanni Lupato)

 

Figura 26 (Elaborazione Giovanni Lupato)

 

Oltre a questa incongruenza cronologica, che evidentemente fa decadere del tutto l’ipotesi, c’è da notare che la stessa ipotesi archeoastronomica si basava sull’assunto che la disposizione delle tombe non potesse essere casuale perché solamente in un caso su 40000 si sarebbe potuta verificare una simile coincidenza dell’orientamento delle quattro tombe verso azimut di interesse astronomico. Dovevo dare una risposta anche a questa curiosità: tale calcolo si basava sulla considerazione che un osservatore al centro della tomba avrebbe potuto valutare l’orientamento dell’ingresso con un margine di errore di 2°. Ho voluto provare questa ipotesi sperimentalmente, ponendo quattro diverse persone al centro di tali manufatti, chiedendo loro di darmi una valutazione soggettiva: l’orizzonte è ostruito dalla presenza di una costruzione, e mi facevo dire da ciascuno degli osservatori a quale paletto di una ringhiera corrispondeva al centro dell’apertura della tomba. Ho così riscontrato differenze di valutazione dell’ordine di 8°. Per questa e per altre ragioni, l’ipotesi di una probabilità su 40000 è scesa a una su poche decine. È da notare che questo lavoro, presentato al congresso UAI del 2000, non è stato pubblicato sulla rivista dell’Unione per una sopravvenuta censura da parte dei “Responsabili”.

 

4. Biadene.

Come ho già riferito all’inizio, era stato ipotizzato che una serie di quattro terrapieni disposti a due a due  sulle su due ripe del paleoaveo del  Piave all’altezza di Biadene fossero stati elevati per servire da osservatori solstiziali (uno di tali terrapieni è stato distrutto). Vediamo qui le tavolette IGM di fine ‘800 (fig.27) e degli anni ’70 (fig.28). Anche in questo caso l’ipotesi archeoastronomica pareva debole già in partenza essendo possibile  una semplice spiegazione di natura orografica: se tali terrapieni fossero stai elevati per controllare l’avvallamento sottostante sarebbero stati comunque orientati verso il sorgere del sole al solstizio invernale, perché lo stesso paleoalveo, e quindi le sue ripide rive hanno tale orientamento.

A questa obiezione se ne aggiungevano altre: dal punto di vista osservativo, si nota che dal terrapieno di Mercato Vecchio non sarebbe stato comunque visibile il terrapieno di Montebelluna, per la presenza di una piccola altura che andrebbe ad ostacolare l’intervisione tra i due siti. Dal punto di vista archeologico si nota che solamente il castelliere di Mercato Vecchio, sito paleoveneto molto importante, ha offerto molti rinvenimenti archeologici, mentre non si è rinvenuto praticamente nulla di significativo negli altri tre terrapieni.

 

Figura 27 (Elaborazione Giovanni Lupato)

 

Figura 28 (Elaborazione Giovanni Lupato)

 

Dal punto di vista storico si è notato che il terrapieno detto di santa Lucia, potrebbe avere una origine medievale, essendo lo stesso circondato da un vallo difensivo, e sorgendo lo stesso nell’area in cui la popolazione della zona nel XIII secolo cercava di fuggire alle scorribande di Ezzelino da Romano. (Nonostante i tentativi di difesa, proprio qui furono compiute orribili stragi). Anche la coppia dei due terrapieni più a valle potrebbe avere una spiegazione storica molto convincente: proprio nell’avvallamento in oggetto all’inizio del secolo XVI si svolsero grandi manovre degli eserciti alleati di tutta Europa che, riuniti nella lega di Cambrai, combattevano contro Venezia. Tali manovre erano coordinate dal famoso Maresciallo La Palice e i due terrapieni, potevano essere i punti di osservazione di tali manovre.
È da notare che sebbene la tesi archeoastronomica sia a questo punto vanificata, è interessante notare che l’orientamento solstiziale della ripa potrebbe avere destato in passato un interesse e qualche ritualità specifica. La parrocchia di Montebelluna, che aveva come sede originaria Mercato Vecchio aveva chiesto dispensa alla Curia Romana di anticipare la Messa dell’alba del giorno di Natale (altare di Santa Anastasia). È noto che la liturgia del Natale che ricorda il Cristo come Sole che vince le tenebre, inizia con la Messa della vigilia, segue la Messa di Mezzanotte, seguita a sua volta da quella dell’alba, e poi da quella del mattino. Considerando come questa liturgia del Natale ricorda antichi riti legati al solstizio, troviamo già più concreto notare che l’attenzione sull’orario della messa dell’alba possa essere relazionata ad antiche liturgie locali, dovute probabilmente alla conformazione geografia del luogo: l’orientamento di una ripa lunga e dritta indica il luogo dove cercare  il sorgere del Sole al solstizio invernale. Sarebbe naturalmente interessante indagare in queste direzioni.

 

5. Giavera del Montello.

Si riporta questo esempio solo al fine di mostrare come l’uso di una logica induttiva, ad un certo punto abbia fatto vedere osservatori astronomici in ogni dove e senza alcun minimo riscontro. Nella località di Giavera del Montello, si era cercato un allineamento al tramonto del sole al solstizio invernale tra il sagrato della chiesa parrocchiale e una collinetta che secondo l’autore, “nelle carte topografiche” aveva la denominazione (fig.29) di Casteller (o simile). In questo caso ho potuto riscontrare che non esiste neppure questo labile indizio: nessuna carta topografica della zona (tavolette IGM del secolo scorso o del precedente (fig.30), carte austriache della prima Guerra Mondiale) indica denominazione uguale o simile per l’altura in oggetto. Purtroppo, e dispiace molto dirlo,  si è riscontrato che su tale collinetta sorge un Ristorante-Pizzeria denominato “Castear”. Il fatto che dalla denominazione di una Pizzeria si sia inventata, e poi divulgata a scala nazionale, una teoria archeoastronomica può sembrare impossibile, ma purtroppo è così. Denunciare questi fatti può essere utile alla formazione di anticorpi fatti di sano scetticismo.
 

Figura 29 (Elaborazione Giovanni Lupato)

 

Figura 30 (Elaborazione Giovanni Lupato)

 

6. Falsificazione generale.

È anche possibile proporre una falsificazione generale delle teorie archeoastronomiche che riguardano il Veneto: si è visto che l’orientamento di molti “osservatori solstiziali” è dovuto a fattori orografici. È sufficiente una carta stradale a grande scala (fig.31) per visualizzate che fiumi come il Piave e il Tagliamento hanno un orientamento a grandi linee coincidente con quello del sorgere del Sole al solstizio invernale. Il fatto che, proprio tra Piave e Tagliamento,  si siano trovati molti cumuli di terreno (motte) aventi orientamenti reciproci di questo tipo, e il fatto che questi orientamenti sono statisticamente rilevanti, dipende dalle dinamiche torrentizie avute da questi fiumi.

 

Figura 31 (Elaborazione Giovanni Lupato)

 

Se si considera che il vicino areale del Sile (il fiume di Treviso) era abitato nell’Età del Bronzo, ci si dovrebbe aspettare anche in questa zona il ritrovamento di motte con orientamento astronomico reciproco. Ma qui tali motte mancano del tutto, proprio perché il Sile, essendo fiume di risorgiva, non produceva con le sue acque tali dinamiche.

Dispiace molto a chi parla di fare la parte della persona animata da cattivi propositi solo perché denuncia la più totale infondatezza di teorie ritenute non solo affascinanti ma purtroppo anche serie e credibili. Credo di aver svolto un lavoro ben più impegnativo della produzione delle teorie a ruota libera che qui ho esaminato, e in tutta franchezza ho anche subito molte ingiustizie per la sola ragione di aver cercato, nei limiti delle mie possibilità di fare un lavoro scientifico, poco gratificante, controproducente in vari rapporti interpersonali, però sostanzialmente serio e doveroso.

Credo in definitiva di aver applicato un metodo di controllo utile a chi, come molti archeoastronomi, non cerca sensazionalismi, ma la concretezza di un risultato confrontabile, soggetto alla dialettica della discussione e quindi scientifico.

 

 

CASISTICA DI ERRORI IN ARCHEOASTRONOMIA - 2

Mario Codebò

 

Presenterò oggi una relazione su una mia indagine di stampo scettico.

 

Colle Joben (Bolzano).

È questo probabilmente il primo monumento italiano di cui sia stata riconosciuta una funzione archeoastronomica.

Nel 1937 l’Ing. Georg Innerebner, pioniere dell’archeoastronomia italiana, pubblicò sulla rivista sudtirolese Der Schlern il suo articolo Der Jobenbühel, eine zeitweisende Kulturstätte der Urzeit (Innerebner, 1937) in cui annunciava la scoperta di tre allineamenti astronomici in quello che riteneva un castelliere preistorico.
 
Nel 1959 lo ripresentò nel suo unico lavoro in lingua italiana La determinazione del tempo nella preistoria dell'Alto Adige (Innerebner, 1959), pubblicato sugli annali dell’Università di Ferrara: "...Presento innanzitutto l’impianto del cosiddetto Jobenbühel, un magnifico castelliere con un vero osservatorio preistorico, situato in mezzo alle Colline di Monticolo (Montiggl) nell’Oltradige presso Bolzano...".

Gli studiosi successivi (Bernardini 1977, p. 114; Jesi 1978, pp. 59-65; Romano 1992, pp. 12-15) ripetevano le affermazioni d’Innerebner, evidentemente senza consultarne la pubblicazione in lingua tedesca. Devo ammettere che anch’io, in occasione della mia pubblicazione del 1997 (Codebò 1997, pp. 731-733), commisi questa mancanza. Successivi miei tentativi di ottenere ulteriori dati archeologici su Colle Joben, anche presso la Soprintendenza competente, s’infransero però contro una sconcertante assenza di documentazione specialistica perfino nel Museo Archeologico di Bolzano e ritenendo il fatto quanto meno singolare, volli risalire alla fonte dei dati. Devo qui porgere un sentito ringraziamento al personale della Biblioteca Provinciale Tessmann di Bolzano per l’assistenza fornitami nella ricerca bibliografica ed all’amico Luigi Felolo per la traduzione in Italiano del testo tedesco, nel quale Innerebner scrive testualmente (traduzione di L. Felolo): «...Che questi resti murari siano di origine preistorica dovrebbe essere  considerato come sicuro benché, nonostante i molti interessamenti, non sia stato possibile ottenere fino ad ora la prova di reperti archeologici, che in tali casi sarebbe decisiva...» (p. 40); e: «...La maggior parte dei circostanti insediamenti preistorici presenta più o meno abbondanti reperti, ciò che fino ad oggi non è risultato a Colle Joben. Anche questa circostanza depone per un indicatore del tempo. Questi punti dovrebbero bastare per considerare con certezza la costruzione di Colle Joben come un luogo di culto della preistoria indicatore del tempo.» (p. 50).

Dunque, se si eccettua il fragile dato tipologico, non sono mai stati trovati in loco reperti materiali che consentano di datare il sito e, meno che mai, di attribuirlo alla preistoria. Innerebner però compie anche uno sconcertante salto logico: anziché doverosamente inferire da questa carenza l’indatabilità del monumento, vi trova conferma del proprio enunciato. Praticamente, contro ogni logica prova la tesi con l’assenza di prove! In realtà oggi, dopo circa centocinquanta anni di studi, Colle Joben resta un monumento di età incerta e chiunque effettui un’accurata esegesi delle fonti se ne rende immediatamente conto.

 

La meridiana naturale di Sesto in Val Pusteria (BZ).

Sempre nel suo articolo del 1959, Innerebner descrive dettagliatamente il complesso di cinque vette nelle dolomiti di Sesto, in Val Pusteria, note come meridiana naturale di Sesto. Scrive l’autore: «...In base ai miei calcoli in merito, mi è riuscito di identificare il punto di partenza, per il quale valgono in modo esatto le denominazioni di queste cime orarie nel vero senso della parola e dal quale nei tempi del solstizio invernale il Sole tocca quasi direttamente le singole cime. È una piccola collina, del resto l’unica allo sbocco della Val Fiscalina nella Valle di Sesto e porta oggi i ruderi di un vecchio fortino austriaco del secolo passato ed inoltre il nome significativo di Heidenbühel, che significa "collina pagana". Pur avendo trovato là sopra solo cocci di consistenza dubbiosa, per me non c'è dubbio che questa collina, a suo tempo, portasse un tempio solare, anzi credo di potere sostenere che il Comune di Sesto deriva - contrariamente a qualche opinione - il suo nome dalla meridiana montana e questo per doppia ragione. [omissis] Mi sembra perciò provato che il Heidenbühel nel periodo preistorico del nostro paese funzionava da centro culturale per tutta la valle e che il rinomato orologio solare montano di Sesto ha la sua origine già nei tempi preistorici...» (Innerebner, 1959, pp. 19-21).

Per ammissione stessa dell’Autore gli unici reperti trovati sono «...solo cocci di consistenza dubbiosa...», perciò non datanti. Logica vorrebbe pertanto che l’attribuzione alla preistoria del sito avvenisse almeno in forma suppositiva. Invece egli si lancia in un vero e proprio atto di fede - «...per me non c'è dubbio che questa collina, a suo tempo, portasse un tempio solare...» - che ovviamente non può trovare posto nella ricerca scientifica, il cui presupposto irrinunciabile è la verifica sperimentale degli assunti.

Ad ulteriore confutazione dell’attribuzione certa alla preistoria di questo singolare orologio solare naturale stanno altri due fatti evidenti:

1) non abbiamo minimamente idea di come i Reti protostorici dividessero il giorno. L’unica certezza della sua divisione in varie ore diurne presso le culture italiche ci proviene dalla società romana e, quindi, dall’Età Classica (Codebò c.s. 1 e 2);

2) escluso il mezzogiorno, che per definizione è la culminazione del Sole sempre sullo stesso meridiano locale sia pure ad altezze diverse nel corso dell’anno, le altre ore naturali sono diseguali, essendo quelle estive più lunghe di quelle invernali.

Perciò, quanto meno sulla base dei dati ad oggi noti e salvo futuri ritrovamenti, piuttosto che nella preistoria la spiegazione più razionale dell’origine della meridiana naturale di Sesto va verosimilmente cercata nell’adozione in epoca moderna – nell’Oltralpe assai prima che in Italia, come ci testimonia Goethe nel suo "Viaggio in Italia" – dell’uso delle ore uguali sia da parte degli abitanti di Sesto che - e forse soprattutto - da parte dei militari di stanza nel forte di vetta.

Come si vede, due capisaldi della vecchia archeoastronomia italiana non reggono alla  confutazione. Perciò, per definizione, non possono considerarsi autentici. Come è noto il modo migliore di verificare una tesi è quello di falsificarla: se ciò non riesce, la tesi si dimostra solida e veritiera.

Nei due casi qui sopra esposti sono stati commessi altri errori metodologici:

a) da parte degli autori successivi, inizialmente me compreso:

1) Non si sono verificate le fonti originali, come è invece sempre consigliabile fare ogni volta che è possibile;

2) Ci si è fidati dell’autorevolezza di un autore, con il risultato di trascinarsi dietro senza accorgersene il suo sbaglio originale, esattamente come descritto dalla Teoria degli Errori a proposito degli errori sistematici;

b) Da parte di Innerebner c’è stato un ingannevole innamoramento delle proprie convinzioni; pericolo questo che è stato ampiamente denunciato durante il convegno internazionale Archeoastronomia: un dibattito tra archeologi ed astronomi alla ricerca di un metodo comune organizzato a Genova e Sanremo dall’Istituto Internazionale di Studi Liguri nel 2002 con la collaborazione ed il contributo di S.A.It., Soprintendenze liguri ed EE.LL. (atti in corso di stampa);

c) Da parte di tutti si è, in una parola, deviato dal metodo d’indagine scientifico, che esige la verifica sperimentale di ogni assunto prima della sua accettazione e che, pur con tutti i suoi innegabili limiti, resta ancora il procedimento più sicuro per distinguere, nei limiti del possibile, il vero dal falso nel mondo fisico.

 

Bibliografia.

·        AA.VV. (c.s.) Archeoastronomia: un dibattito tra archeologi ed astronomi alla ricerca di un metodo comune. Atti del Convegno I.I.S.L. 2002.

·        Bernardini, Enzo (1977) Guida alle civiltà megalitiche. Vallecchi, Firenze.

·        Codebò, Mario (1997) Nuove indagini a Colle Joben. In: Memorie S.A.It. 68, 3.

·        Codebò, Mario (c.s. 1) Montagne meridiane dell'arco alpino. In: Atti del Convegno "Archeologia ed Astronomia a confronto", S. Flavia (PA).

·        Codebò, Mario (c.s. 2) Archeoastronomia in Val di Fassa. In: Rivista Italiana di Archeoastronomia IV 2004.

·        Innerebner, Georg (1937) Der Jobenbühel, eine zeitweisende Kulturstätte der Urzeit. In: Der  Schlern, Bolzano.

·        Innerebner, Georg (1959) La determinazione del tempo nella preistoria dell'Alto Adige. In: Annali dell’Università di Ferrara, N.S., XV, I, 1.

·        Jesi, Furio (1978) Il linguaggio delle pietre. Rizzoli, Milano.

·        Romano, Giuliano (1992) Archeoastronomia italiana. CLEUP, Padova.

 
 

ARCHEOASTRONOMIA ANTISCIENTIFICA

Giovanni Lupato

 

Avendo da poco scritto una relazione sulla “Casistica di errori in archeoastronomia” (in allegato), in cui ho analizzato e falsificato alcuni esempi di teorie ipotizzate per il Veneto, con particolare riguardo per i terrapieni di Veronella e Castello di Godego, ed essendomi giunto nei giorni scorsi un libro su questi due siti, in cui mi sembra di notare un notevole regresso rispetto a quanto acquisito, mi sento (purtroppo per il tempo che vado a perdere) in dovere di esternare la mia posizione.

Il testo in questione è “Accampamenti Romani nel Veneto”, di Francesco Vitale, (CLEUP, Padova 2004), e in esso si avanza la tesi che i due siti abbiano ospitato accampamenti Romani. Ora, non ho nulla in contrario all’ipotesi di questo tipo di utilizzo (il dosso ellittico di origine fluviale di Veronella si sarebbe senz’altro dimostrato adatto allo scopo, e a Castello di Godego si può riscontrare dalla cartografia che il terrapieno (originario) di forma ovale era stato usato come luogo di acquartieramento da Ezzelino da Romano, e varie ipotesi lo fanno risalire al Tardo Impero Romano), ma ciò con cui non posso proprio concordare è che Vitale pretende che tali luoghi siano rimasti immutati nel corso dei secoli, e questo in contrasto con i documenti storici.

A Castello di Godego, Vitale trascura un importante e dettagliato documento del Settecento, che mostra una coeva forma ovale (per cui la trasformazione nell’attuale forma a losanga quadrangolare risale all’ultimo decennio di tale secolo).

A Veronella, Vitale non rende giustizia a una lunga serie di documenti che dimostrano, con perfetta coerenza e linearità, che il terrapieno in oggetto risale a pochi decenni fa. Anche se ha ben poca importanza, ma solo per evidenziare la scarsa propensione dell’autore ad una lettura oggettiva della realtà, voglio far notare, che sebbene io stesso lavori da anni sulla falsificazione delle teorie archeoastronomiche che riguardano il Veneto, mi sono visto dedicare da Vitale due citazioni quasi identiche, in cui sembra che io abbia lavorato “per trovare conferma alle ipotesi archeoastronomiche”. Naturalmente rifiuto totalmente tale attribuzione, e ritengo che Vitale avrebbe fatto meglio a non citarmi affatto.

Ma dove Vitale cade in modo irrecuperabile è nel rispetto del tutto inesistente per i documenti storici, e in modo particolare quando essi danno testimonianze diverse dalle sue aspettative. Vitale non pubblica l’immagine di un importante estratto di una mappa tecnica Veneziana che mostra le Motte di Castello di Godego di forma ovale anziché quadrangolare. Tuttavia cita tale disegno e ne parla testualmente così (pag.65):

“Il compilatore della mappa delle Motte si limitò a guardare la cinta arginata da lontano, forse senza nemmeno percorrere la stradina. Evidentemente nel Settecento tutti i cartografi svolgevano la loro attività indossando abiti eleganti ed evitavano perciò con cura di sporcarsi gli stivali”.

Oltretutto Vitale si intestardisce  qui con una stradina che ritiene antichissima, che però penso proprio che all’epoca non esistesse ancora. L’elegante cartografo Veneziano, che aveva il compito di disegnare lo stato di fatto della rete di rogge destinate all’irrigazione della zona (perché era in progetto il rifacimento di tale rete per assecondare le domande idriche delle varie tenute), aveva tracciato al posto di tale stradina una complessa trama di canali (riconoscibili ancora nelle attuali tavolette IGM). Anche all’interno delle Motte, lo stesso elegante signore aveva disegnato un corso d’acqua (derivato dal Condotto Moranda), proprio qui dal corso sinuoso ed irregolare.

Nel caso di Veronella, ancora una volta di fronte ad una mappa Settecentesca che contrasta la sua ipotesi, Vitale se la prende ancora una volta  con le calzature dei cartografi (pag.23)

“Evidentemente, chi fu incaricato di eseguire il disegno non aveva alcuna intenzione di inzaccherarsi gli stivali”.

Per la cartografia di epoca successiva, Vitale si limita ad esempio a togliere i numeri dei mappali catastali dalle sue figure 8 e 6, databili 1846 e 1939. Con questo artificio, riesce a sfuggirgli che, pur non essendo mai variata la proprietà della tenuta di Veronella, i lotti catastali sono variati nella loro forma in un modo particolarmente interessante: solo nel 1939 combaciano con la forma esatta del terrapieno (elevato appena qualche anno prima).

Sono convinto che se Vitale si fosse accorto (con una semplice misurazione in scala), che nella mappa del 1846, la linea che lui interpreta come culmine del terrapieno rappresenta in realtà tutt’altra cosa (limite interno di una fascia paludosa parzialmente interrata e di pertinenza pubblica sotto la Repubblica Veneta, ben visibile anche nelle figure 9, 10,11)  se la sarebbe presa ancora una volta con gli stivali (questa volta magari di qualche Austriaco). (La linea che Vitale interpreta come culmine del terrapieno, che dovrebbe essere a 30 metri dal fossato, nella rappresentazione catastale in oggetto si trova a una distanza di circa 12 metri da questo).

Non mi va di elencare la lunga serie di interpretazioni distorte, né di ironizzare su chi lavora su una materia come l’archeoastronomia, di per sé difficilmente falsificabile, ma che qui deride i documenti storici., ed elude ciò che oggettivamente smentisce la sua ipotesi. Mi limito ad osservare che Vitale propone, come prova finale del suo lavoro, un’analogia induttiva basata su multipli di misure, con una pianta di una località di origine Romana. Trovo questo tipo di prova del tutto insignificante, dato che lo stesso autore salta a piè pari il fatto che il raggio interno del terrapieno di Veronella è di cento (100) metri esatti. Tale coincidenza geometrica (riscontrabile anche nella mappa catastale del 1939) lascia intendere per lo stesso tracciamento, l’uso di una attualissima cordella metrica.

Sono certo che con il tempo e la rilettura, Vitale si rimetterà presto dal suo incidente di percorso, credo tuttavia che tale incidente sia imputabile non tanto a Lui personalmente, ma piuttosto a un clima culturale generale, in cui, per ragioni estranee al corretto procedere scientifico, il contraddittorio è stato bandito. Ritengo purtroppo che lavori come questo siano ancora prodotti, perché è mancato un dibattito, che si poteva promuovere ancora qualche anno or sono. Ricordo che tale dibattito sui risultati e sul metodo è stato ostacolato e censurato addirittura all’interno di una Associazione come l’Unione Astrofili Italiani. Spero che i responsabili della stessa Unione, essendo oltretutto anche “Responsabili” di nome, in sintonia con la definizione dello Zingarelli , diano finalmente ragione del loro comportamento  e delle conseguenze che ne derivano.

La seguente non è una provocazione gratuita, ma un interrogativo profondo.

Mi chiedo con quale credibilità l’UAI si muova contro l’astrologia, quando difende e si rende di fatto promotrice di un’archeoastronomia così antiscientifica. Qual è la discriminante tra la prima e la seconda, quando ambedue essenzialmente eludono la risposta alla falsificazione?

Il terrapieno di Veronella è segnalato per la prima volta in letteratura nel 1960. Come mai nessuno si è accorto prima di un “monumento” tanto particolare e titanico nelle dimensioni?

Per evitare il problema –introduzione tardiva della mongolfiera-, posto da Vitale, è veramente credibile che nessuno dei tanti cartografi che si sono succeduti nel corso di secoli nel  disegnare il contorno ellittico del dosso di origine fluviale, si sia mai accorto di un simile manufatto, e non abbia mai segnalato o fatto segnalare una simile curiosità?

Basterebbe trovare una descrizione di questo terrapieno anteriore al 1930.

Veramente trovare tale descrizione è un’opera tanto ardua da risultare impossibile?

Credo che denunciare l’Archeoastronomia quando sconfina nella pseudoscienza sia assolutamente doveroso, se non altro, per non coinvolgere ingiustamente chi svolge coscienziosamente il suo lavoro.

Ritengo che non ci si possa lamentare poi se gli archeologi non prendono in seria considerazione queste teorie: di fronte a casi come questi, hanno perfettamente ragione.

Sono sinceramente dispiaciuto di quanto ho dovuto scrivere, ma, anche alla luce del lavoro impegnativo che ho svolto, lo ritengo doveroso seppur triste.

 

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