ARCHEOASTRONOMIA LIGUSTICA

 

 

Pubblicato in: Atti del IV Congresso Nazionale della Società Italiana di Archeostronomia, ConTatto Edizioni, Lerici (SP), settembre 2006, pp. 15-29.

 

 

IPOTESI ASTRONOMICA INTORNO AD UNA EPIGRAFE DEDICATORIA DI ETA’ BIZANTINA A GRADO

 

Ettore Bianchi, Mario Codebò

 

 

Riassunto.

Nella chiesa bizantina di Grado una epigrafe musiva firmata Giovanni mostra la cifra 2170 in lettere greche. Gli autori, partendo dagli studi precedenti che v’identificano una data, passano in rassegna una serie di possibili spiegazioni, prevalentemente incentrate sul significato mistico dei numeri in ambiente probabilmente gnostico, e pervengono ad un’ipotesi astronomica centrata sulla precessione degli equinozi come manifestazione concreta dell’avvento del regno di Cristo, nella consapevolezza, però, di dovere ammettere l’esistenza di conoscenze astronomiche diverse – ma ancora non provate – da quelle tolemaiche.

 

Abstract.

A mosaic iscription in the Byzantine church of Grado (Italy), subscribed John, has the number 2170 written in Greek words. Starting from the previous reports which show it as a time date, the two authors inspect a series of plausible explanations, which are founded prevailingly on numbers mystical meaning within a milieu which was likely gnostic, and they reach the astronomical conjecture of the aequinoctial precessional movements meaning Jesus Christ’s Kingdom Advent. But they know very well that in this case it is required to suppose and to prove that no Ptolemy’s astronomical knowledge were in existence at that time (1bis).

 

 

1) INTRODUZIONE. (Ettore Bianchi)

Grado è un centro lagunare del Friuli-Venezia Giulia, in provincia di Gorizia; al tempo dei Romani, esso aveva coperto il ruolo di porto avanzato, sull’Adriatico, della magnifica città di Aquileia, collocata a circa 2 km di distanza; di quell’epoca restano lapidi, sarcofagi, anfore, bronzetti e altro materiale archeologico. Tuttavia, nei secoli V e VI, alcune devastanti invasioni barbariche segnarono per sempre le sorti della contigua metropoli, e soltanto il piccolo borgo marinaro, situato in mezzo ad acque sicure e comunque munito presto di forti difese, sopravvisse come castello litoraneo dell’Impero d’Oriente; là, di fronte alla calata dei terribili Longobardi, trovò riparo lo stesso vescovo di Aquileia, seguito da un corteo di chierici, servi e dignitari laici. La stabile residenza di un alto prelato, che indebitamente si faceva chiamare “patriarca”, ma che in effetti godeva di molto prestigio sul piano spirituale, portò una notevole prosperità a Grado, e soprattutto convinse le autorità secolari e i privati benefattori a pagare un’edilizia religiosa di buon livello artistico, consona al nuovo rilievo ecclesiastico della cittadina: opera insigne, eretta poco dopo la metà del secolo VI, fu la spaziosa cattedrale, d’inconfondibile impronta bizantina, dedicata a Santa Eufemia; all’interno della basilica, un elegante pavimento a mosaico, a decorazione esclusivamente geometrica, accolse numerose epigrafi votive di notabili che avevano contribuito alla fabbrica del duomo (1).

Uno di questi pannelli musivi ha attirato la nostra attenzione per il presente studio: in figura 1 si può vedere una nostra ricostruzione grafica; il testo è riportato nei correnti repertori d’epigrafia, sotto la rubrica C.I.L., V, 1615, unica iscrizione greca nel novero delle iscrizioni latine della cattedrale. La lettura è complicata da alcune particolarità grafiche, ad es. il al posto della normale congiunzione kài, ma non è difficile:

Eucharistòn tò Theò kè tì Aghia Eufemìa upèr pantòs toù oìkou mou, epoìsa pòdas ekatòn

Si traduce: < Essendo grato a Dio e a sant’Eufemia per tutta la mia famiglia, feci eseguire cento piedi di mosaico>. In breve, il dedicante ringraziò Sant’Eufemia, per la protezione accordata a sé e ai suoi congiunti; essi avevano corso qualche grave pericolo, non meglio specificato, ma l’avevano scampato grazie a un intervento soprannaturale. Nell’ultima riga, l’omaggio tributato alla Santa è seguito da una coppia di monogrammi identici; un monogramma é un intreccio elegante di linee, ricavato dalle lettere che compongono un nome di persona: qui, entrambi i nessi di lettere, impostati sulla N, si sciolgono in Iohannou, “di Giovanni”, al genitivo, col sottinteso che la dedica era opera di un tale chiamato Giovanni; in mezzo ai due emblemi si leggono quattro lettere: una Beta, con un accento acuto capovolto in basso a sinistra, e poi un’Omicron, una Rho, e un’altra Beta, stavolta senza pédice (2).

Bisogna sapere che i numeri non sono stati sempre rappresentati con notazioni particolari, come quelle che inventarono gli Indiani del IV secolo dell’Era Volgare, e che noi, per vie traverse, abbiamo ereditato dagli Arabi. Gli antichi avevano a disposizione soltanto l’alfabeto, che serviva tanto a comporre fonemi quanto a esprimere quantità; donde un incrociarsi di lettere e numeri: ad es. D, in Latino, rappresentava la “di” ma, in altri contesti, indicava 500, così come M era non solo “emme” ma anche 1000, etc. ; lo stesso, anche se su una scala di valori differente, accadeva con le ventiquattro lettere della lingua greca (3). Nel caso presente, s’identifica la prima Beta con dhia-chiliàdhes, 2000, perché, nel sistema greco di numerazione, un piccolo segno in basso a sinistra evidenziava le migliaia; l’Omicron sta per evdhòminda, 70; la Rho per ekatòn, 100; e l’ultima Beta per dhìo, 2. Si deduce che questa determinata serie di lettere va intesa come la cifra <2172>.

 

 

2) UN MESSAGGIO IN CODICE. (Ettore Bianchi)

Ovviamente, questa non è la sede per discutere le interpretazioni già avanzate per l’insolita chiusa dell' epigrafe, o quelle eventualmente proponibili, ma è opportuno spendere qualche parola in merito. L’opinione dominante è che il numero 2172 indicasse una data, e precisamente quella in cui Giovanni appose la propria dedica a Sant’Eufemia: si sa che l’epigrafe fu dettata poco prima del 3 Novembre del 579 d.C., perché allora, a Grado, si tenne un animato sinodo dei vescovi sottoposti alla cattedra di Aquileia; e, per l’occasione, come dice un’altra iscrizione, fu ultimata la nuova pavimentazione della basilica. Se 2172 fossero gli anni trascorsi fra il 579 d.C. e un fatto remoto di straordinaria importanza, forse legato alla figura di Mosè, si potrebbe detrarre 579 da 2172 e ottenere il primo anno del computo che Giovanni seguiva: 2172 - 579 = 1593 a.C. Purtroppo, la scelta del 1593 a.C., quale anno primo di un’epoca storica, sembra piuttosto stravagante, ed è assolutamente senza riscontri tra i sistemi cronologici in uso nella Tarda Antichità (4).

In una spiegazione alternativa, di tipo economico, si potrebbe ipotizzare che Giovanni, associando al proprio monogramma il valore 2172, stesse dichiarando, in unità monetarie, la spesa sostenuta per far eseguire la sua parte di mosaico pavimentale della basilica. A ben vedere, però, anche questa soluzione non regge alla critica: prima di tutto, Giovanni sarebbe stato l’unico, in mezzo ai benefattori della chiesa di Grado, a farsi bello del finanziamento elargito; d’altra parte, un’eccezione per il protagonista si capirebbe se la sua donazione fosse stata d’entità straordinaria, mentre il valore di 100 piedi di pavimento, a Grado, era mediocre, e poco c’era da menarne il vanto (5).

Abbiamo tentato altre soluzioni, come se il 2172 potesse nascondere l’attribuzione di un titolo o di una virtù personale di Giovanni. L’argomento richiede una premessa: s’è visto che, convenzionalmente, per mancanza di apposite espressioni grafiche, a ciascuna lettera dell’alfabeto greco corrispondeva un numero; di conseguenza, ogni sostantivo, ogni aggettivo, ogni vocabolo poteva essere cifrato semplicemente sommando, lettera per lettera, i valori delle diverse componenti; il valore ottenuto si diceva psephìa, “radice numerica” di quella parola: ad es. il noto attributo di Gesù,“il Nazareno”, ò Nazoréos, valeva 70 + 1963 = 2033; infatti l’articolo era dato da Omicron \ 70, mentre l’attributo era formato da Ni \ 50, Alfa \ 1, Zeta \ 7, Omega \ 800, Rho \ 100, Ipsilon \ 5, ancora Omega \ 800 e Sigma \ 200; il che forniva la “radice numerica” 1963. Analogamente, ci siamo domandati se anche Giovanni avesse fatto uso di un analogo cifrario, che sostituiva le parole con la somma dei valori numerici delle singole lettere, per designare il proprio ruolo pubblico, alto o basso che fosse, e/o la propria dirittura morale. Intanto, salta agli occhi una divertente assurdità: il nostro uomo, di questo rango sociale o dei suoi presunti meriti non lasciò una testimonianza chiara e distinta, a tutte lettere, come facevano i suoi concittadini, e neppure una semplice sigla con le iniziali, bensì un ostico indovinello, per di più in Greco, che pochi lettori avrebbero potuto capire; se davvero costui avesse avuto qualità importanti, di cui andare fiero, non le avrebbe avvolte in un’obscuritas francamente sorprendente (6).

Scartate le ipotesi concorrenti, l’unica interpretazione credibile è che un tipo eccentrico di nome Giovanni, mentre contribuiva alla pavimentazione della basilica di Grado, avesse inteso lanciare un monito religioso o una solenne benedizione, ma in modo cifrato, apparentemente per non inquietare la gente comune. Riflettiamo. La comunicazione verbale ha una grande influenza sugli uomini, ma il numero la supera per efficacia di sintesi; quindi, il suddetto principio d’equivalenza tra lettere e numeri poteva essere usato per adombrare ragionamenti anche molto articolati: ad es. alcune epigrafi bizantine dell’area siro-palestinese recano, nel contesto di un discorso religioso, l’enigmatico numero 2443, in lettere greche; per fortuna, altre fonti segnalano l’uso liturgico della sigla B-Y-M-G; questa era un notàrikon, cioè una specie d’acronimo ricavato dalle lettere iniziali delle parole che componevano la frase B(oéthei) Y(iòs) M(arìas) G(ennetheìs); si trattava dell’invocazione <Soccorso, o Figlio generato da Maria!>. Ebbene, il valore delle iniziali era Beta (con pedice) \ 2000, Ipsilon \ 400, Mi \ 40 e Gamma \ 3; la “radice numerica” della sigla era proprio 2443: se ne deduce che il senso occulto della cifra 2443 era la richiesta d’aiuto a Cristo da parte dell’Umanità sofferente. In pratica, ogni questione, anche la più metafisica, poteva essere rappresentata mediante cifre, naturalmente a patto che poi i lettori fossero abbastanza perspicaci ed istruiti da afferrarne la chiave in maniera univoca (7).

E’ vero che i predicatori cristiani, nelle loro omelie e negli opuscoli diretti al grande pubblico, non mancavano di mettere in guardia i fedeli contro le vane elucubrazioni sui numeri, deliramenta mathematicorum, perché vi scorgevano il retaggio delle pratiche magiche, della finta arte divinatoria e dell’idolatria più sfrenata. E’ altresì vero che certe nozioni simboliche, indispensabili come strumenti per spiegare passi difficili della Bibbia, erano adottate senza ritegno nelle opere di parecchi teologi ultra-ortodossi, da Ilario di Poitiers a Gregorio Nazianzeno, da Ambrogio a Girolamo, da Boezio a Isidoro di Siviglia (8). Un Cristiano colto, commentando la pretesa del Logos divino di essere l’Alfa e l’Omega, avrebbe riconosciuto che queste lettere esprimevano delle idee: prima di tutto, il Figlio di Dio era il Principio e la Fine di tutte le cose; d’altra parte, il valore di Alfa \ 1 più quello di Omega \ 800, dava come “radice numerica“ 801; ebbene, era facile arrivare alla medesima cifra 801 sommando 800, il valore complessivo della parola greca peristerà, “colomba”, che scese sul capo di Gesù al momento della sua immersione nelle acque del fiume Giordano; con il numero 1, che era l’unità contrapposta alla molteplicità e, per estensione, l’unione armonica di Padre, Figlio e Spirito Santo; allora, tramite l’801, si poteva dimostrare che il sacramento del Battesimo metteva in comunione col mistero della Trinità. Anche per la comprensione di una moltitudine di rimandi interni alle Scritture non si poteva ignorare o sottovalutare il significato occulto di lettere e numeri: ad es. come Mosè si appartò col Signore sul Monte Sinai, per

ricevere i Comandamenti e altri ordini, e vi restò 40 giorni e 40 notti (Esodo, 24, 12-18), così Gesù si ritirò nel deserto per 40 giorni prima d’intraprendere la sua missione (Mt 4,1-4); evidentemente, Gesù agì ad imitazione di Mosè, o, meglio, Mosè aveva prefigurato Gesù in quanto pastore del gregge di Dio; forse, i due sarebbero tornati, l’uno al fianco dell’altro, nel giorno del Giudizio Finale (9).

E’ del tutto possibile che, pure a Grado, intorno al vescovo Elia, si riunisse un piccolo gruppo di persone intelligenti, fornite di disposizione interiore, esperienza e prudenza adeguate per leggere i numeri, al fine di meglio comprendere le verità rivelate; non è azzardato supporre che il nostro Giovanni fosse uno di quei Cristiani dallo spirito nobile, facente parte della cerchia di Elia, e che, qualsiasi cosa avesse da dire, la indirizzasse non al grande pubblico, bensì a una minoranza munita di conoscenze numerologiche.

Dunque, la cifra 2172 poteva benissimo celare un sottile messaggio esoterico, rivolto a pochi iniziati.

 

 

3) DA BABILONIA ALLA NUOVA GERUSALEMME. (Ettore Bianchi)

A questo punto, la sfida consiste nell’analizzare dal punto di vista simbolico la cifra 2172; è un compito delicato, un po’ come dipanare un’intricata matassa o cercare la strada in un dedalo senza smarrirsi. Scorrendo con pazienza gli indici delle versioni correnti della Bibbia, abbiamo scoperto che, nel 537 a.C., quando Ciro, re di Persia, decise di liberare il popolo d’Israele dal giogo dei Babilonesi, il primo contingente ad essere rilasciato fu quello dei 2172 figli di Paro (Esd 2,3; Neh 7,8). Questo numero deriva quasi certamente da un articolato censimento, perché figura in cima a una interminabile lista di casate giudaiche note ai profeti Esdra e Neemia, che vissero e operarono alla metà del V secolo a.C. (Esd 2,1-70; Neh 7,6-73). In altre parole, 2172 furono i primi di coloro che rimisero piede nella Terra dei Padri e avviarono la ricostruzione del Tempio, dopo gli anni dell’abominio e dell’esilio in terra straniera.

Davanti a questo versetto della Bibbia, si potevano adottare due maniere d’interpretazione: l’approccio più semplice al testo era il modo letterale, che esprimeva un concetto piuttosto trasparente o descriveva un evento storico: ad es. il ritorno in Palestina, un fatto positivo, realmente accaduto in passato. Tuttavia, poteva darsi che, tra le righe, si celasse un pensiero recondito, e allora valeva la pena di tentare una lettura più “spirituale”, mirante all’elevazione dell’anima: in questo caso, i primi 2172 liberati dalla cattività babilonese avrebbero alluso indirettamente, come in una metafora, all’emancipazione di una Nazione Giusta, comunque intesa, da una situazione di odiosa tirannide (10).

Il problema è scoprire quale significato volesse dare ai 2172 Reduci il nostro Giovanni, nella Grado del VI secolo d.C. La citazione degli Ebrei in Palestina si applicava intuitivamente a quell’Israele spirituale che era la Chiesa; ma che dire della situazione di prigionia? Possibile che Giovanni, nel 579 d.C., volesse rievocare l’eroica ma ormai superata epoca dei martiri, allorché i Cristiani erano messi al bando, spogliati delle loro proprietà, ferocemente messi a morte? Meglio pensare che fosse in atto una nuova persecuzione a sfondo politico-religioso, meno sanguinosa di quella promossa dagli imperatori pagani, ma non meno densa d’insidie per la congregazione cristiana; ma che, a dispetto degli avversari, attorno alla venerabile figura di Santa Eufemia, si stesse raccogliendo l’avanguardia del Popolo di Dio in fuga dagli oppressori.

La storia ecclesiastica ci insegna che, in quel tempo, dopo la metà del VI secolo, i primati di Aquileia, con sede a Grado, si trovarono al centro di un’accesa disputa dogmatica e disciplinare nota come “scisma dei Tre Capitoli”: nel 553 d.C., il Concilio Costantinopolitano II s’era convinto, a posteriori, che un terzetto di vecchi teologi avesse dato insegnamenti sbagliati e pericolosi, in quanto infettati dall’eresia nestoriana; viceversa, il clero dell’Alta Italia, delle Gallie e delle Spagne riteneva che gli asserti sotto accusa, detti, appunto, i Tre Capitoli, fossero sostanzialmente corretti, e che il rischio vero fosse quello di tradire gli insegnamenti dell’importante concilio ecumenico tenutosi nel 451 a Calcedonia, città asiatica la cui patrona era precisamente Santa Eufemia (11). In realtà, la controversia non era che l’ultima manifestazione del perenne dissidio, interno al mondo cattolico, tra chi s’identificava completamente con gli apparati ideologici dello Stato e coloro che, invece, non condividevano pratiche e valori dell’Impero in sfacelo (12). Un gran numero di vescovi, tra i quali l’aquileiese Paolino, che fu in cattedra dal 557 al 569 d.C., osò contestare le condanne sommarie emesse dal governo imperiale e dal pontefice romano in quella materia così delicata; inevitabilmente si arrivò a minacce e a scomuniche reciproche. Il contrasto di Aquileia con Roma e Costantinopoli divenne particolarmente aspro proprio sotto l’episcopato di Elia, dal 571 al 586 d.C.; il completamento della nuova cattedrale di Grado, dove anche Giovanni appose la sua iscrizione votiva, fu ottenuto poco prima della convocazione, sempre da parte di Elia, di una riunione dei rappresentati del clero delle Venezie, dell’Istria, della Pannonia e del Norico, al fine di rimarcare la posizione d’intransigente difesa dottrinale (13).

Non è da escludersi che Giovanni, implicato a modo suo nelle veementi dispute sui Tre Capitoli, fosse fuggito dall’Oriente greco in seguito alle censure da parte ecclesiastica e alle denuncie al braccio secolare, e fosse approdato alla mensa del vescovo Elia, il quale, col suo carisma e il suo coraggio, stava ripristinando spazi di libertà per i veri credenti; dal punto di vista di un esule per motivi religiosi, la piccola isola di Grado poteva rappresentare, con qualche énfasi, una specie di Nuova Gerusalemme. Quanto alla scelta, da parte di Giovanni, di ricorrere a un linguaggio cifrato per comunicare ai suoi fratelli di fede tale esaltante prospettiva, si deve pensare alla delicatezza della congiuntura: una troppo netta affermazione di fede non conformista, in un rapporto negoziale ancora fluido, poteva avere delle implicazioni destabilizzanti; sia perché c’erano fondati motivi di ritenere che, posto davanti a clamorose dissidenze e defezioni in seno alla Chiesa, il popolino ingenuo si sarebbe abbandonato a scoppi di fanatismo dagli sbocchi imprevedibili (14); sia perché l’Imperatore non avrebbe potuto tollerare che, con discorsi incauti e disfattisti circa la viziosa Babilonia, si demoralizzassero le sue truppe già duramente provate e le schiere dei suoi burocrati, ovunque abbastanza malviste (15). In altre parole, l’oscurità espressiva dell’epigrafe di Grado era intenzionale, perché Giovanni era consapevole dell’approssimarsi di un nuovo inizio per la Cristianità, ma era anche preoccupato che il suo entusiasmo non turbasse troppo, o anzitempo, i lettori più emotivi.

Dunque, la cifra 2172 rimandava, in senso allegorico, ai prodromi di rinascita della Chiesa, dopo un’ondata di tradimenti e persecuzioni, così come, a loro tempo, gli Ebrei, prima dispersi e sfruttati, avevano potuto radunarsi con gioia nella loro ricostituita Gerusalemme.

 

 

4) UN QUADRO APOCALITTICO. (Ettore Bianchi)

Per cogliere pienamente il legame tra l’epigrafe di Giovanni e lo scisma dei Tre Capitoli, dobbiamo esplorare un aspetto poco noto della mentalità degli uomini del VI secolo d.C.: la loro attesa degli Ultimi Giorni.

Nella storia del Cristianesimo, va sotto il nome di millenarismo o chiliasmo la tendenza a sperare dall’alto l’improvvisa e definitiva soluzione dei guai degli uomini, attraverso una fase di transizione di mille anni, durante il quale il Cielo avrebbe governato la Terra (16). Si fantasticava che, prima o poi, il Figlio di Dio sarebbe tornato in mezzo alla gente, al comando di gloriose schiere angeliche, preceduto da prodigi terribili e dolorosi moniti; invano Satana avrebbe scatenato i suoi servitori, in un estremo tentativo di rimandare la resa dei conti; ma Cristo avrebbe vinto e imposto la sua volontà, purgando le nazioni dagli elementi viziosi e menzogneri, e, contemporaneamente, premiando i suoi fedeli con una pace perpetua, una giustizia vera e un’abbondanza inaudita. Dopo un intero millennio di Regno di Cristo, i vivi e i morti sarebbero stati chiamati ad affrontare il Giudizio Universale, in seguito al quale i colpevoli sarebbero andati distrutti, e gli innocenti sarebbero entrati nella incantevole Gerusalemme Celeste, ove avrebbero dimorato beati per l’eternità (17). Fatto sta che molti buoni Cristiani, non necessariamente superstiziosi, aspettavano il ritorno, un giorno o l’altro, del Figlio di Dio; la loro convinzione si fondava su un ragionamento del genere: come il Signore aveva impiegato sei giorni per completare l’opera della Creazione, così al Mondo era assegnata fin dal principio un’esistenza di sei “giorni di mille anni”, cioè 6000 anni; se Adamo ed Eva, secondo gli specialisti della Bibbia, erano venuti alla luce circa nel 5500 a.C., era logico supporre che 6000 anni più tardi, e precisamente nel 500 d.C., agli esordi del Settimo Millennio, si sarebbe verificato un cambiamento decisivo per l’Umanità (18).

A questo proposito, è significativo che molta letteratura apocalittica, di matrice giudaica o giudaico-cristiana, fosse rispolverata nel corso dei secoli V e VI, e che si assistesse ad una ripresa vivacissima del dibattito intorno alla Apocalisse giovannea (19); in particolare, furono rimessi in circolazione i predetti libri di Esdra, con una corposa aggiunta escatologica (20). In effetti, nel VI secolo dell’era volgare, i tempi erano diventati drammaticamente cupi, soprattutto in Italia: al regno barbarico, ma tutto sommato pacifico, dell’eretico Teoderico avevano fatto seguito la devastante guerra greco-gotica, dal 535 al 553, e l’ondata di stragi e saccheggi portata dai Longobardi, dopo il 569; alle vittime del ferro e del fuoco si erano aggiunte quelle della carestia, della peste, delle calamità naturali, delle repressioni poliziesche. La Chiesa stessa era precipitata in concitate polemiche e gravi fratture interne, a causa di losche figure quali l’imperatore Giustiniano e gli opportunisti che lo circondavano. Ce n’era abbastanza perché il “gregge” cristiano sconvolto domandasse consigli su come sfuggire alla morsa del Demonio, sul modo di vivere rettamente, su cosa attendersi dal futuro, e perché qualche vigile pastore provasse a trasformare l’ansia per la dissoluzione del vecchio mondo nella speranza di un mondo migliore (21). Abbiamo prove concrete che, alla fine del VI secolo, si vivesse una specie di “crisi escatologica”: nel 591, la Gallia centro-meridionale fu messa a rumore da un visionario, coperto di pelli ma ricco d’ispirazione, che si fece credere il Cristo Re; l’impostore additò i ricchi e i preti quali bersagli dell’odio di classe del popolino immaturo, creando gravi disordini, ma fu assassinato per ordine di un vescovo alverniate, e i suoi seguaci furono dispersi a mano armata (Greg. Turon., Hist. Francorum, 10, 25). Anche nelle alte sfere, l’angoscia era tale che, nel 582, l’imperatore Tiberio Costantino ricevette assicurazione da un angelo che la fine del mondo non sarebbe sopravvenuta lui regnante; e qualche anno dopo, nel 632, all’udire notizie circa la comparsa di Maometto nelle profondità della penisola arabica, un altro imperatore, Eraclio, temette che fosse arrivata l’ora dell’Anticristo (22). Lo stesso Elia, il tenace vescovo di Aquileia che aveva commissionato i lavori alla basilica di Grado, si ricollegava idealmente al famoso profeta Elia, vissuto nel IX sec. a.C.; secondo la leggenda, costui era stato rapito in cielo sopra un carro infuocato (II Re 2,11-14), ma s’era reincarnato in Giovanni Battista per testimoniare la identità messianica di Gesù (Mt 11,11-15; 17,10-12); assumendo quel nome assai evocativo, in condizioni drammatiche per la cura d’anime, il nostro presule manifestava acuta consapevolezza che poco mancava alla fine della lotta fra il Bene e il Male, che i premi celesti erano in vista, e che solo importava di mantenere integra la propria fede (23).

Tornando, allora, a Giovanni, ci piace immaginare che il suo pensiero fosse più o meno il seguente: il 500 d.C. era stato l’anno d’istituzione del Regno Millenario di Cristo; ora, nel 579, la Divina Provvidenza stava spazzando via quegli strumenti diabolici che erano gli Stati, compreso il sedicente Imperium Romanum Christianum; il presente scoppio di gravi accadimenti doveva rallegrare tutte le menti aperte e spingerle a preservare la fede durante le ultime tribolazioni.

Dunque, il 2172 dell’epigrafe gradese adombrava la nozione di salvezza nella Chiesa, inserita su uno sfondo concettuale in senso lato millenarista.

 

 

5) ARITMETICA SACRALE. (Ettore Bianchi)

L’argomento non è esaurito: una volta stabilito che Giovanni stava salutando l’ingresso della Chiesa nel Regno di Cristo, dopo un lungo periodo di tribolazioni, si deve spiegare perché, di tutte le possibili formule, egli abbia scelto proprio la radice 2172, tratta da un passo tutto sommato minore del profeta Esdra.

Per arrivare a una risposta, ricordiamo che, nella Bibbia, il libro più eloquente circa l’intreccio fra Cristianità perseguitata e Nuova Gerusalemme è pur sempre la Rivelazione, attribuita, a torto o a ragione, a San Giovanni Evangelista, meglio nota come Apocalisse canonica (dal greco Apokalypsis) (24). Nel testo dapprima si descrive la città di Babilonia, impuro covo di demoni e fonte di perdizione per l’Umanità, nella misura in cui i più si dissetavano col vino della sua blasfema frenesia, tutti i re della terra fornicavano col suo corpo immondo, e non c’era mercante che non si arricchisse per l’esorbitante suo lussuria (Ap 18,2-3). Proseguendo nel racconto, l’Apostolo dice d’esser stato trasportato sopra un monte grande e alto, dal quale aveva potuto contemplare una meravigliosa costruzione celeste, la Città Santa di Gerusalemme, tèn pòlin tèn aghìav Ierousalèm, pronta a discendere sulla terra per accogliere gli uomini di buona volontà, giudicati degni d’entrarvi (Ap 21,9-22). Trasposta nel VI secolo, questa metafora di Babilonia e di Gerusalemme, poteva altresì definire Costantinopoli e Grado: la prima capitale di un ordinamento sociale ormai vecchio, che, più degenerava, più appariva governato dalla potenza di Satana; la seconda primo nucleo della Civitas Dei, che s’avviava a ereditare la terra.

A questo punto della nostra indagine, abbiamo tentato d’esplorare se la radice 2172 utilizzata a Grado si fosse, almeno in parte, formata per una mescolanza di altri numeri, di valore diverso e più basso, reperibili tra i versetti di Apocalisse (25). Per illustrare il metodo che abbiamo seguito, è utile il paragone con taluni numeri sacri ben strutturati, che si trovano, qua e là, nelle Scritture e nei relativi commentari: ad es., nella Genesi, si legge che Abrahamo aveva un seguito armato di 318 schiavi, nati nella sua casa (Gen 14,14); a un Cristiano colto non poteva sfuggire che tale quantità si ricavava da 300 + 18; di tali addendi, il 300, che era il prodotto di 3 x 100, alludeva alla Passione di Gesù, poiché la lettera greca Tau \ 300 somigliava, nella forma grafica di T, ad una croce per i supplizi; anche il 18 aveva a che fare col Salvatore, nella misura in cui il nome Iesoùs principiava con una Iota \ 10 e una Eta \ 8 ; in breve, i 300 + 18 schiavi di Abrahamo prefiguravano il sacrificio del Salvatore sulla Croce (26).

Analogamente, ci siamo posti il problema di scomporre la cifra 2172 in due o più parti significative; per ottenere tale scopo, abbiamo proceduto con ostinazione, per tentativi ed errori, cercando quali dei numeri, tra quelli dotati di risonanza apocalittica, potessero essere sommati o moltiplicati o comunque combinati

tra loro, fino a dare 2172; al termine di una serie di calcoli, s’è circoscritta la scelta a due formulazioni principali.

La prima soluzione è 2172 = 2148 + 24.

Essa parte dal significato dell’addendo 24: San Giovanni vide, sotto al Trono di Dio, 24 troni minori, ove sedevano altrettanti dirigenti anziani, avvolti in candide vesti e dotati di corone d’oro (Ap 4,4); ogni tanto, questi personaggi misteriosi s’inginocchiavano ai piedi dell’Onnipotente e ne cantavano le lodi (Ap 4,10-11; 7,11; 11,16); gli stessi adoravano anche l’Agnello di Dio, che stava in mezzo a loro (Ap 5,14). Molti esegeti ritengono che i 24 Vegliardi fossero dei patriarchi, profeti e altri personaggi notevoli dell’Antico Testamento, e che il Signore, per ricompensa dei loro passati servizi, li avesse autorizzati a coprire incarichi di governo nell’imminente Regno del VII Millennio, quando Cristo avrebbe dominato l’umanità in via di redenzione; in seguito, alla fine dei tempi, gli stessi anziani sarebbero rimasti in carica quali membri del Supremo Tribunale, che avrebbe giudicato i vivi e i morti. Dal punto di vista ecclesiastico, i 24 Vegliardi, che erano destinati ad assistere Cristo nel governo del mondo, prefiguravano la Chiesa Trionfante sui suoi nemici, cioè la casta sacerdotale al potere (27).

L’addendo 2148 si ricava dalla somma 1260 + 888: sempre secondo l’Apocalisse canonica, 1260 saranno i giorni durante i quali Satana cercherà di distruggere la Cristianità; infatti, nel mezzo delle piaghe che si abbatteranno sulla terra, dovranno apparire due Testimoni di Cristo, vestiti di sacco; per 1260 giorni essi vagheranno di contrada in contrada, incoraggiando i giusti e ammonendo i reprobi, fino a quando una Bestia infernale non ucciderà la zelante coppia; ma dopo tre giorni e mezzo, i due resusciteranno e spariranno tra le nuvole, lasciando dietro di sé un devastante terremoto (Ap 11,3-13). Contemporaneamente, una bellissima Donna, vestita di Sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di 12 stelle, dopo avere appena partorito un bimbo miracoloso sarà minacciata da un furibondo Dragone e fuggirà nel deserto, dove troverà un posto sicuro preparato da Dio, e ivi sarà nutrita per 1260 giorni (Ap 12,1-17). Le figure che intervengono in queste visioni vanno probabilmente intese come il patriarca Enoch e il profeta Elia, nunzi della vendetta divina, mentre la femmina perseguitata dovrebbe essere Maria, madre di Cristo e quindi, indirettamente, progenitrice della Chiesa. Infine, ma questa non è informazione desumibile da Apocalisse, si sa che la radice numerica del nome di Gesù, in lingua greca, era 888: infatti, nella parola Iesoùs; le lettere componenti valevano rispettivamente Iota \ 10, Eta \ 8, Sigma \ 200, Omicron \ 70, Ipsilon \ 400 e ancora Sigma \ 200, la loro somma faceva 888.

Se addizioniamo i predetti numeri, otteniamo esattamente 2172: (1260 + 888) + 24 = 2148 + 24 = 2172. Questa espressione potrebbe tradursi in termini teologici come segue: <l’estrema persecuzione nel nome di Gesù fa sperare nell’avvento del Regno Millenario>.

La soluzione alternativa è 2172 = 2160 + 12.

Essa si fonda sul senso dell’addendo 12: San Giovanni presenta la Gerusalemme Celeste come una vera città, a pianta perfettamente quadrata, di 12000 x 12000 stadi; case e piazze saranno immense, luminose e costruite con oro puro, che risulterà trasparente come vetro; il complesso sarà munito di solide mura in diaspro, erette su un basamento composto da 12 strati di differenti cristalli preziosi; ciascuno strato sarà dedicato a uno dei 12 Apostoli di Gesù; su ogni lato della cinta si apriranno tre varchi monumentali, chiusi da porte di madreperla; sopra ciascuna porta starà scritto il nome di una delle 12 tribù d’Israele, e davanti ad essa starà di guardia un angelo armato; in tutto si conteranno 12 porte, con 12 nomi d’inviati e 12 vigilanti (Ap 21,9-22); in mezzo alla città santa scorrerà un meraviglioso fiume, sulle rive del quale cresceranno alberi da frutta, che produrranno 12 raccolti all’anno, uno al mese (Ap 22,2).. Quindi il numero dodici contiene, come minimo, un’esaltazione e una promessa di trionfo per la Chiesa, nello scontro finale contro le forze del Male (28).

Continuando, l’addendo 2160 è il prodotto di 24 x 90: il senso amministrativo e giudiziario del numero 24, col suo rimando ai Vegliardi Incoronati, s’è appena esposto; il fattore 90, che non viene citato in Apocalisse, è verosimilmente un prestito dal Giudeo-Cristianesimo: la diciottesima lettera dell’alfabeto ebraico, la Tzadi, era l’iniziale della parola “giustizia” e inaugurava locuzioni del tipo <Giusto è il Signore e le giuste azioni ha care> (Sal 11,7); però la medesima lettera, trasposta sul piano matematico, aveva il valore numerale di 90; da qui, ad associare il numero 90 al Cristo, il Giudice per eccellenza, il passo era breve (29).

Combinando i predetti numeri, otteniamo ancora 2172: (24 x 90) + 12 = 2160 + 12 = 2172. Questa espressione potrebbe tradursi nella seguente professione di fede: <Il Giudizio Universale aprirà alla Chiesa vivente le porte della salvezza.>

Dunque, la radice 2172 poteva, teoricamente, essere ottenuta in maniera duplice, tale da evidenziare ora il disegno provvidenziale che sottostava alle ultime persecuzioni religiose, ora l’inesorabile appuntamento dei peccatori coi rigori della giustizia divina.

 

 

6) IPOTESI ARCHEOASTRONOMICA. (Mario Codebò)

Sviluppando questa catena di congetture e nella piena consapevolezza dei forti rischi insiti nella manipolazione dei numeri, proponiamo con cautela l’ipotesi che la cifra 2172 contenesse una sorta di predizione: “La catastrofe politica e religiosa dell’Impero romano preludeva all’instaurazione del Regno di Cristo e, scaduto il Millennio, alla celebrazione del Giudizio Universale. L’Avvento del Regno di Dio sarà un rinnovamento di portata cosmica. Ad onta delle molte profezie che non si erano verificate, questa lo sarebbe stata, perché così c’era scritto sia nei Libri Sacri che nel libro del Cielo: l’immenso orologio celeste scandiva il tempo del Signore con l’inviolabile legge della Precessione degli equinozi”.

Se infatti supponiamo che, accanto alla nozione tolemaica della precessione degli equinozi con valori di velocità di 1° per secolo e di tremila anni di tempo per percorrere i 30° di ogni segno zodiacale, ne fosse esistita già allora un’altra con valori di velocità più prossimi a quelli oggi noti – pari a 0°00’50,290966”di moto angolare annuo al J2000.0 e 2147,503 anni di tempo necessari per percorrere i 30° di ogni segno zodiacale – per es. 0°00’50”, allora 2160+12 e, a maggior ragione, 2148+24, possono interpretarsi come il tempo impiegato dal Sole per attraversare un intero segno zodiacale ed entrare in un altro: la cifra 2172 potrebbe allora indicare la posizione dell’equinozio di primavera nel segno zodiacale precedente a quello dell’epoca di Giovanni di Grado.

Poiché il punto vernale – la cui posizione al J2000.0 d.C. è all’altezza di ω Piscium - agli inizi dell’Era Cristiana era localizzato all’ingresso della costellazione dei Pesci presso la stella ο Piscium, 21482160 anni prima si trovava presso le Pleiadi (Codebò e Felolo c.s.) (30), mentre 2160 anni prima del 579 d.C. era in prossimità di τ Arietis, ossia era all’ingresso di questa costellazione.

Di conseguenza, la “data” di Giovanni potrebbe volere significare il passaggio dall’Antica Alleanza - ben simbolizzata dall’Ariete che è ad un tempo la costellazione zodiacale e l’animale sacrificato in luogo d’Isacco, con il quale di fatto Abramo suggellò il Sacro Patto con Dio (Gen 22,13) – alla Nuova Alleanza, il cui simbolo più arcaico non fu, come noto, la croce ma i pesci che Cristo moltiplicò, con i pani, due volte (Mt 14,17-19; 15,34-36; Mc 6,38-43; 8,7; Lc 9,13-16; Gv 6,9-11) e che nella loro forma greca ιχθύς simboleggiano, secondo le testimonianze patristiche, la frase: Ιησούς Χριστός Θεού Υιός Σωτήρ, ossia: Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore.

Il punto debole di questa nostra ipotesi – certo ricca di coincidenze – è naturalmente la nozione comune che l’astronomia dell’Età Classica stimava in 3000 anni il tempo necessario al Sole per passare da un segno zodiacale ad un altro alla velocità di 1° al secolo. Tuttavia molti piccoli indizi stanno inducendo alcuni autori ad avanzare l’ipotesi che la precessione degli equinozi fosse nota ben prima della scoperta ufficiale d’Ipparco e già con valori più prossimi a quelli oggi noti (31 passim). Del resto si sta anche facendo strada il sospetto che Tolomeo abbia truccato deliberatamente i suoi calcoli (32).

Di conseguenza questa nostra interpretazione astronomica non pretende di avere il valore di una probabilità, né tanto meno di una certezza, ma solo di una possibilità nel caso in cui il prosieguo degli studi dimostrasse come le conoscenze degli antichi fossero più precise di quanto fino ad oggi ritenuto (33). Non sembra infatti potersi finora escludere categoricamente che, per esempio, tra le migliaia di tavolette cuneiformi che giacciono tutt’oggi non tradotte nei depositi di vari musei (34) possano trovarsi accenni ad una conoscenza del fenomeno precessionale antecedente anche di molto all’età di Ipparco.

 

 

7) CONCLUSIONI. (Ettore Bianchi)

Il risultato della nostra indagine sul simbolismo della epigrafe C.I.L., V, 1615, che proponiamo agli studiosi, si può riassumere così: Giovanni fu un uomo pio, di lingua greca, molto dotto, ma estremamente discreto; visse nella seconda metà del VI secolo d.C., in un periodo storico travagliato; fu spinto a ritirarsi presso il vescovo Elia, nell’isola di Grado, dove gli parve d’entrare quasi in una Nuova Gerusalemme; i chierici e gli intellettuali laici del luogo erano rattristati dalla società civile ormai al collasso e dalle dispute interne alla Chiesa, e si consolavano all’idea che, quanto prima, Cristo avrebbe trionfato su Satana; perciò, il nostro personaggio, sul mosaico pavimentale della cattedrale, sentì il dovere di definirsi, in codice, come <colui che incita la congregazione cristiana a perseverare in vista degli Ultimi Giorni>; siffatto invito alla speranza derivò forse la sua originale forma cifrata, molto lontana dal senso comune, oltre che da una profonda interpraetatio della Bibbia, anche da una possibile familiarità con la Precessione degli Equinozi e col moto degli astri, secondo un modello non-tolemaico del Cosmo della cui esistenza non abbiamo le prove ma che non è più così assurdo ipotizzare.

 

 

7) NOTE E BIBLIOGRAFIA.

(1) Grado vanta una cospicua tradizione di studi antiquari; per un’agile ma completa panoramica, si segnala E. Marocco, Grado. Guida storico-artistica, Trieste, 1999, specialmente pp. 13-39.

(1bis) Si ringrazia la prof.ssa Stefania Della Scala per la consulenza linguistica.

(2) La ricostruzione testuale è offerta da G. Cuscito, Una pianta settecentesca del Duomo di Grado e le iscrizioni musive del sec. VI, in Aquileia Nostra, 43, 1972, pp. 105-124.

(3) Ulteriori informazioni in C. Boyer, Storia della Matematica, trad. it. Milano, 1990, pp. 68-73.

(4) R. Egger, Zu zwei altchristlichen Grabinschriften Aquileias, in Aa. Vv., Studi Aquileiesi in onore di Giovani Brusin, Aquileia, 1953, pp. 346-351. Sulla problema della cronologia biblica, da Teofilo d’Antiochia a Giovanni Malala e oltre, abbiamo consultato V. Grumel, La Chronologie, in P. Lemerle ( a cura di), Traité d’études byzantines, I, Paris, 1958, pp. 26-232; nonché il compendio di P. Siniscalco, voce Cronologia-cronografia in A. Di Berardino ( a cura di), Dizionario di Patristica e di Antichità Cristiane, Genova, 1983, coll. 6867-6878.

(5) Abbiamo esaminato tale ipotesi col giovane studioso Davide Muià, che qui si ringrazia.

(6) Per quel che vale, ci sarebbe poi una critica di carattere psicologico: la prima parte dell’iscrizione lascia immaginare in Giovanni un tipo schivo, fortemente attaccato all’intimità della famiglia o del gruppo d’appartenenza; in genere, individui di tal fatta, timidi e riflessivi, perseguono più la serenità interiore che il primato nei confronti degli altri; invece, elogiandosi pubblicamente da solo, egli si sarebbe dato un’aria stranamente grave e superba, poco d’accordo con la sua indole.

(7) Questo e altri esempi di determinazione della psephìa si trovano nell’indispensabile manuale di P Testini, Archeologia Cristiana, Bari, 1980, pp. 357-361.

(8) La propensione dei Cristiani più istruiti verso i simbolismi con le lettere e le crittografie mistiche è illustrata da M. Guarducci, Misteri dell’alfabeto, Milano, 1993, pp. 29-85. Ad Aquileia, l’usanza di tradurre messaggi complessi con immagini e simboli nelle chiese era consolidata già nei secoli III e IV d.C: si deve a R. Iacumin, Le porte della Salvezza, Udine, 2000, passim, la dimostrazione che si può leggere un bel mosaico paleocristiano come si legge un testo di Origène o di Cromazio.

(9) Le equivalenze sono tratte liberamente dal classico lavoro di P. Friesenhan, Hellenistische Wortzahlenmystik im Neuen Testament, Leipzig-Berlin, 1935, passim. I “numeri sacri” a disposizione dei primi Cristiani erano una cinquantina, ma solo alcuni tra essi avevano una certa potenza suggestiva, vuoi perché ricorrenti in natura, vuoi perché carichi d’eleganti implicazioni concettuali, o perché già impiegati in qualche passo della Bibbia. Interessanti, sul piano della numerologia, erano non solo gli scritti dei Padri della Chiesa e delle sette cristiane gnostiche, ma anche ai testi della sapienza tradizionale caldea, egiziana, pitagorica e talmudica.

(10) Si chiama sineddoche quell’artificio retorico per il quale si usa, in modo compendiario, una parte per il tutto: qui i primi 2172 per la totalità degli uomini, donne e bambini d’Israele in procinto d’essere rimpatriati.

(11) L’ astrusa discussione riguardò le opere di Teodoreto di Cirro, Iba di Edessa e Teodoro di Mopsuestia, tutti già morti e sepolti da un pezzo. Una sommaria rassegna delle polemiche si legge in G. Filoramo, E. Lupieri, S. Pricoco, Storia del Cristianesimo. L’Antichità, Roma-Bari, 1997, pp. 421-424.

(12) Le due convinzioni rivali, il cesaro-papismo, inteso come teoria di una Chiesa di Stato, e la teocrazia, cioè la preferenza per una Chiesa politicamente neutrale, si confrontarono con alterne vicende per tutta la Tarda Antichità, dopo che Costantino e i suoi successori si furono pronunciati a favore di una incrollabile alleanza fra Trono e Altare: ad esempio, nel IV secolo, il mondo cristiano fu dilaniato dalla lotta fra gli ariani, legittimisti, e i niceni, autonomisti. Si leggano le dense pagine di M. Simonetti, Arianesimo latino, in St. Mediev., 8, pp. 663-774; su particolari aspetti di teologia politica, cfr. S. Calderone, Eusebio e l’ideologia imperiale, in M. Mazza, G. Giuffrida (a cura di), Le trasformazioni della cultura nella tarda antichità, Roma, 1986, pp. 1-26.

(13) I risvolti particolari che lo scisma presentò nella Venetia et Histria sono analizzati in G. Cuscito, La fede calcedonese e i concili di Grado e di Marano, in Ant. Alto Adriatiche, 17, 1980, pp. 207-230. Su Grado come durevole focolaio di fede per l’intera laguna venetica, si veda G. Fedalto, Organizzazione ecclesiastica e vita religiosa nella <Venetia maritima>, in A. Carile, G. Fedalto (a cura di…), Le origini di Venezia, Bologna, 1978, pp. 251-415. I Tricapitolini sarebbero rientrati nella comunione con la Chiesa romana solo nel 689.

(14) C’è tutta una letteratura circa i tumulti delle fazione circensi, le ostilità religiose, i saccheggi, i pogrom antigiudaici che videro come protagoniste le plebi urbane nella prima età bizantina. Si veda E. Patlagean, Povertà ed emarginazione a Bisanzio, trad. it. Roma-Bari, 1986, pp. 93-126.

(15) Soldatesche indisciplinate e funzionari poco affidabili erano un problema cronico per lo Stato, come dimostra W. E. Kaegi Jr., Byzantine Military Unrest, Amsterdam, 1981, pp. 131-135. Lo scisma dei “Tre capitoli” dette voce alle lagnanze delle folle cristiane del Nord Italia, e finì col sospingerle nelle braccia tolleranti dei Longobardi, contribuendo in tal modo ad affossare la grande restaurazione politica, economica e sociale sognata dagli Imperatori; su ciò vedi C. G. Mor, La fortuna di Grado nell’altomedioevo, in Ant. Alto Adriatiche, 1, 1972, pp. 299-315.

(16) L’anelito escatologico, in generale, rappresenta una rivalsa immaginaria delle classi subalterne sulla durezza delle condizioni di vita e lavoro: così V. Lanternari, voce Millennio, in Enciclopedia Einaudi IX, Torino, 1980, pp. 312-331.

(17) Ben poterono i più autorevoli teologi, specialmente dopo il 313 d.C., irridere la fabula mille annorum: la cruda verità è che l’attesa di un imminente Regno di Cristo integrò, per così dire, la dottrina ufficiale dei primi Padri della Chiesa: Giustino, Ireneo di Lione, Tertulliano, etc. Da quella trassero spunto, a più riprese, personalità cristiane che nutrivano speranze di una perfetta giustizia e di un futuro riscatto sociale, come Ippolito Romano, Cipriano di Cartagine, Lattanzio, Commodiano di Gaza, Nepote di Arsinoe, Vittorino di Petovio. Per le varie idee espresse nei primi tre secoli dell’era volgare, si rinvia a C. Nardi, Chiliasmo, età dell’oro, utopia. Fonti e temi classici e cristiani, in Religioni e Società, 9, 1994, pp. 62-97. La cospicua presenza, al fianco della corrente millenaristica, di un Cristianesimo gnostico, attento alla salvezza delle anime individuali più che alla fine del mondo, è sottolineata da M. Simonetti, Alcune riflessioni sul rapporto tra gnosticismo e cristianesimo, in “Vetera Christianorum”, 28, 1991, pp. 337-374.

(18) Il tema dell’hexaémeron, cioè dei 6 giorni della creazione, fu proposto, verso il 100 d.C., dall’Anonimo che scrisse l’Ascensione d’Isaia (Asc. Is., 9,9; 11,29), e poi, verso il 120, dall’Autore della Lettera dello ps.-Barnaba (Ep. Barn., 15,1-9); da Adamanzio nel Dialogo sulla retta fede (Adaman., 2,13), dallo ps-Cipriano (De mont. Sina et Sion, 4,3); da Giulio Africano (Chronogr., fr. 18,4); etc. Tutti i testi sono esposti e commentati in J. Daniélou, La teologia del giudeo-cristianesimo, trad. it. Bologna, 1974, pp. 427-458.

(19) Nel V secolo d.C. e nel corso del VI fiorirono riedizioni, commenti e imitazioni dell’Apocalisse canonica, nonché degli Oracoli Sibillini, del libro di Daniele, dell’Apocalisse di Baruch, etc. Sul tema si consulti C. Moreschini, E. Norelli, Storia della letteratura cristiana antica greca e latina, II, Brescia, 1996, pp. 325-332. Per tre illustri commentatori dell’Apocalisse canonica, Eumenio di Tricca, Andrea di Cesarea e Anastasio il Sinaita, vissuti tutti a ridosso del 600 d.C., ibidem, pp. 981-984.

(20) Le opere attribuite ad Esdra erano il Libro I, l’autentico “Esdra canonico”; il Libro II, assegnato altrimenti al profeta Neemia; i Libri III e IV; il Libro V e il Libro VI. Gli ultimi due scritti contenevano materiale apocalittico di media età imperiale, riguardante la promessa vittoria degli uomini giusti e la distruzione dell’iniqua Babilonia, fra guerre e sconvolgimenti naturali. Testi e commenti si trovano in L. Moraldi, Apocrifi del Nuovo Testamento III. Lettere, Dormizione di Maria, Apocalissi, Casale Monferrato, 1994, pp. 431-451.

(21) Nell’arco del VI secolo, la popolazione dell’Italia crollò, passando da sei a quattro milioni d’anime; la stima è di G. Pinto, Dalla tarda antichità alla metà del XVI secolo, in Aa. Vv., La popolazione italiana dal medioevo ad oggi, Roma-Bari, 1996, pp.15-71. Sulla grande peste, scoppiata nel 537, si veda P. Allen, The “Justinianic” Plague, in “Byzantion”, 49, 1979, pp. 5-20. Sul malcontento popolare serpeggiante nel periodo 550-650 si legga J. F. Haldon, Byzantium in the Seventh century: the transformation of a culture, Cambridge, 1990, pp. 26-79.

(22) Sulle paure nella corte d’Oriente insiste C. Mango, La civiltà bizantina, trad. it. Roma-Bari, 1991, pp. 289-313.

(23) Un altro eminente uomo di Chiesa, patriarca di Gerusalemme dal 494 al 516 d.C., aveva preso il nome d’Elia; anche costui s’era impegnato allo spasimo contro l’imperatore Anastasio, che voleva mancare di rispetto al Credo calcedonese, e alla fine era stato deposto con la forza. La sua storia è raccontata da L. Perrone, La Chiesa di Palestina e le controversie cristologiche, Brescia, 1980, pp.141-170.

(24) Da sempre le interpretazioni dell’Apocalisse canonica divergono: fra gli esegeti più minuziosi, fino a qualche anno fa, prevaleva l’opinione che Apocalisse preconizzasse l’avvento del Regno, per così dire, nella sua materialità: cfr. A. Wikenhauser, L’Apocalisse, trad. it. Milano, 1983, pp. 351-353. All’opposto, c’è chi, fraintendendo, fornisce dell’opera una lettura spiritualistica e allegorizzante, ritenendo superficiali, esteriori, i rapporti col millenarismo: ad es. E. Corsini, Apocalisse prima e dopo, Torino, 1980, pp. 496-499. Più sfumati sono i giudizi di M. Simonetti, L’Apocalissi e l’origine del millennio, in “Vetera Christianorum”, 28, 1989, pp. 337-350; U. Vanni, L’Apocalisse. Ermeneutica, esegesi, teologia, Bologna, 1988, pp. 349-390; C. Mazzucco, E. Pietrella, Il rapporto tra la concezione del millennio dei primi autori cristiani e l’Apocalisse di Giovanni, in “Augustinianum”, 18, 1978, pp. 29-45.

(25) Tra i numeri sacri dell’Apocalisse, ricordiamo il 7, che compare più volte per significare la completezza di una classe di oggetti: 7 congregazioni destinatarie del messaggio giovanneo, 7 angeli custodi delle differenti chiese, 7 stelle nelle mani di Cristo, 7 candelabri d’oro con lampade ardenti, 7 corna e 7 occhi sull’Agnello di Dio, 7 sigilli, 7 trombe, 7 tuoni, 7 arcangeli sterminatori , 7 teste della Bestia satanica. Inoltre, 10 saranno le corna della medesima Bestia; 12 i componenti della Gerusalemme celeste; 24 i ministri umani intorno a Cristo; 666 sarà la radice numerica della predetta Bestia; 1000 gli anni che durerà il Regno di Cristo; per 1260 giorni i Cristiani subiranno l’ultima persecuzione; a 1600 stadi da Babilonia arriverà il sangue impuro versato dagli angeli del Signore. Per completezza, anche se siamo sopra il valore critico di 2172, segnaliamo che 144000 saranno le primizie del genere umano a conoscere la salvezza.

(26) L’argomento fu avanzato per primo dallo ps.-Barnaba, verso il 150., ma colpì vivamente Cipriano da Cartagine, Ambrogio da Milano e Agostino da Ippona. Il successo di questa allegoria della vittoria della Croce s’evince dal fatto che a Nicea, all’importante concilio che condannò solennemente l’Arianesimo, furono ammessi esattamente 318 vescovi.

(27) Il numero 24 aveva un grande valore simbolico presso gli Ebrei e i primi Cristiani giudaizzanti, in riferimento alla tradizione vetero-testamentaria: ad es. secondo certi computi, più o meno fittizi, 24 erano stati i profeti eminenti d’Israele, compreso il Battista, prima dell’inizio del ministero di Gesù (Tomm, 52); e 24 erano i libri dell’Antico Testamento accettati dalla tradizione rabbinica (IV Esd., 14,4). La tradizione sub-apostolica riteneva che San Pietro, lasciata Gerusalemme, sarebbe giunto a Roma, dove per 24 anni pieni avrebbe retto la locale comunità cristiana, dal 42 al 66 d.C., prima di patire il martirio agli inizi del suo venticinquennale. Nella compilazione cristiana apocrifa nota come Fede / Sapienza, Gesù affermò di venire da una regione invisibile del cielo chiamata il 24-imo Mistero (Pistis Sophia, 1, 2).

(28) A sua volta, il numero 12 era caro all’Ebraismo e al Giudeo-cristianesimo: ad es. si diceva che il pettorale indossato dal sommo sacerdote Aronne, in particolari occasioni liturgiche, fosse ornato con 12 pietre preziose (Es, 28,15-30); in tal caso si trattava, evidentemente, dei 12 figli di Giacobbe e delle rispettive tribù d’Israele. Il condottiero Giosuè, erede politico di Mosè, dopo aver varcato il sacro corso del fiume Giordano, si fermò per celebrare la Pasqua, e fece erigere un monumento con 12 pietre, a ricordo del passaggio di ciascuna delle tribù d’Israele (Gs 4,1-9). Nella liturgia, 12 erano i Pani della Preposizione, che si mettevano ogni settimana sulla sacra mensa del Tempio: ai soli sacerdoti era lecito cibarsene (Lv 24,5-9). Su tutto ciò si veda G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Torino, 1999, pp. 100-102.

(29) Su questo particolare prestito dall’Ebraismo al Cristianesimo si legga B. Bagatti, L’Eglise de la Circumcision, Jérusalem, 1965, pp. 161-163.

(30) De Santillana G. e Von Dechend H., 2003, Il mulino di Amleto, Adelphi, Milano.

(31) Codebò M., Felolo L., c.s., Le incisioni corniformi di M. Bégo e l’equinozio di primavera. In: Atti del III convegno nazionale S.I.A.

(32) Codegoni A., 2004, Quell’imbroglione di Claudio Tolomeo, Le Scienze, 436, p. 117.

(33) Russo l., 1996, La rivoluzione dimenticata, Feltrinelli, Milano.

(34) Neugebauer O., 1974, Le scienze esatte nell’antichità, Feltrinelli, Milano.

 

Torna all’indice cronologico.

Torna all’indice tematico.

Torna alla pagina iniziale.