ARCHEOASTRONOMIA LIGUSTICA

 

 

Pubblicato in: Atti del Convegno Internazionale “Archeoastronomia un dibattito tra archeologi ed astronomi alla ricerca di un metodo comune” tenutosi a Genova e a Sanremo nell'anno 2002, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Atti dei Convegni XIII, De Ferrari Editore, Genova, 2009, pp. 11-16, ISBN 978-88-86796-43-9.

 

 

PRESENTAZIONE E SCOPI DEL CONVEGNO INTERNAZIONALE DI ARCHEOASTRONOMIA DI GENOVA E SANREMO ANNO 2002

 

Mario Codebò

 

 

Lo scopo di questo convegno è di riunire intorno ad un comune tavolo di discussione archeologi, astronomi ed altre figure professionali coinvolte nella ricerca sulle culture umane presenti e passate.

L'archeoastronomia, o per meglio dire l'astronomia culturale (astronomy in culture), pur essendo "nata formalmente" nel 1740 - anno di pubblicazione del libro di William Stukeley Stonehenge, a temple restored to the British druids, nel quale si afferma per la prima volta che il viale di Stonehenge è orientato verso il sorgere del Sole al solstizio d'estate - e pur essendo stata formalizzata nelle sue procedure durante i secoli XIX e XX prima da Sir Norman Lokyer e poi da Alexander Thom, non si è ancora affermata come disciplina codificata dal punto di vista metodologico ed utilizzata consuetudinariamente nella ricerca archeologica, nonostante abbia dimostrato, grazie ai suoi peculiari risultati, di essere parte integrante ed imprescindibile di quest'ultima.

Infatti decenni di ricerche sui megaliti d’Europa e del bacino del Mediterraneo hanno dimostrato che almeno fin dal Neolitico, e con una vera e propria esplosione durante il III millennio a. C., l'uomo preistorico effettuò misurazioni più o meno accurate del moto degli astri, individuandone quei fondamenti che permisero, all'alba del I milennio a.C., di elaborare calendari sufficientemente precisi da richiedere soltanto una prima correzione all’epoca di Giulio Cesare ed una seconda, milleseicento anni dopo, all’epoca di papa Gregorio XIII.

E la scoperta dell'attività empirico-matematica di questi nostri progenitori è stata talmente inaspettata da lasciare per lungo tempo perplessi e scettici gli studiosi moderni.

Alla credibilità della disciplina - che, come tutte, deve sottostare al vaglio del metodo scientifico, in quanto l'unico in grado a tutt'oggi di fornire riscontri oggettivi - non hanno certo giovato escursioni nel campo dell'esoterismo, della numerologia, della fanta-archeologia e/o del paranormale; in una parola: dell'irrazionale. Escursioni purtroppo condotte da una nutrita schiera di scrittori talora anche autorevoli o che, comunque, riuscivano - e riescono tutt'oggi - ad accreditarsi di autorevolezza.

Ma non hanno neppure giovato gli arroccamenti difensivi ed i rifiuti di principio da parte di chi invece conduceva seriamente indagini sulle culture del passato.

Il risultato è stato quello di confinare l'archeoastronomia in un limbo tra le scienze e le non-scienze, producendo due gravi danni:

I) l'arresto dell'evoluzione e della maturazione della neonata disciplina;

II) la perdita irrimediabile - perché lo scavo archeologico distrugge ciò che non viene registrato - di questi dati trascurati.

Astronomi, archeologi, antropologi, etnologi, storici delle religioni, storici della scienza, ecc. hanno tendenzialmente proceduto ciascuno sulla propria strada, ignorandosi l'uno l'altro ed ignorando sopratutto di avere terreni comuni su cui cooperare e confrontarsi. Lo vediamo per esempio nel fatto che i testi di storia della scienza, o della matematica, o dell'astronomia, partono sempre dall'età babilonese, omettendo i sostanziosi apporti delle età precedenti. Lo vediamo ancora, per esempio, dal fatto che il reperto paletnologico, quando gli sono stati applicati i metodi dell'indagine archeoastronomica, ha spesso rivelato una sorprendente attenzione ai fenomeni del cielo (un esempio significativo per tutti: la necropoli calcolitica di Saint Martin de Corléans in Aosta, Italia, possiede ben diciotto allineamenti astronomici sviluppati nell'arco di mille anni e la loro presenza è parte integrante dei riti che vi si svolsero). Lo vediamo pure dal fatto che da molti miti di religioni antiche traspaiono riferimenti a fenomeni celesti. Lo vediamo infine, per fare un ulteriore ma non ultimo esempio, dal fatto che l'indagine presso culture contadine contemporanee svela una sorprendente, ma fin'ora mai documentata, rete di riferimenti alla culminazione meridiana del Sole utilizzata per la vita quotidiana: i numerosi monti del mezzogiorno usati come meridiane naturali (Romano 1986, pp. 1-9; Arborio Mella 1990, pp. 48-49; Codebò 1997a; 1997b; c.p. 1).

Questo oblìo dell'astronomia culturale, ma anche delle geometrie e delle matematiche "primitive" o "povere", è figlia di quella deleteria dicotomia, quasi antinomica e particolarmente viva in Italia, tra cultura scientifica e cultura umanistica. A mio personale parere non vi è nulla di più errato e fuorviante: se per scientifico intendiamo la verifica sperimentale delle tesi enunciate, allora la distinzione reale è tra scienza ed arte, dove la prima utilizza appunto il metodo delle verifiche sperimentali e, quindi, le più oggettive possibili, mentre la seconda è giustamente il prodotto della sensibilità e della fantasia soggettiva dell'artista.

Mi pare pertanto assai più corretto parlare di scienze matematiche od esatte e di scienze umane; ma, in entrambi i casi, di scienze. Stando così le cose, il cosiddetto dialogo tra le due culture è non soltanto possibile ma addirittura doveroso.

Una metodologia della ricerca archeoastronomica ancora non esiste. Ogni operatore, pur nell'ambito del metodo scientifico, procede a modo suo e secondo criteri personali. Non esistono, in altre parole, procedure codificate, validate e comunemente accettate, quali per esempio lo scavo stratigrafico o per unità stratigrafiche. Gli stessi algoritmi di calcolo non sono sempre condivisi ed interpretati allo stesso modo. Per esempio: nell'ipotesi che un determinato monumento presenti un allineamento stellare, che per definizione è puntiforme, quale scostamento dal punto teorico possiamo "tollerare" per continuare a ritenere intenzionale l'orientamento su quella particolare stella? Un primo d'arco? Un grado? Due gradi? Cinque gradi? O quale altro valore?

E' chiaro che si tratta di un fattore fondamentale per decidere se orientamento c'è e se esso fu intenzionale o casuale.

Oppure: quali sono la precisione e l'affidabilità del calcolo quando si risale indietro nel tempo di migliaia o di decine di migliaia di anni, come impone la preistoria? Quanto è attendibile una ricostruzione del cielo - ossia delle coordinate dei singoli astri - nel Mesolitico o, peggio, nel Paleolitico? E quali algoritmi adottare per le specifiche necessità del calcolo archeoastronomico? Per determinare, per esempio, la posizione dei pianeti è necessario utilizzare le teorie VSOP (82 e/o 87) oppure possono bastare formule più semplici? In altre parole: qual è il livello di precisione che ci si deve imporre in archeoastronomia?

Analogo quesito si pone anche per gli strumenti di misura adoperati: si deve usare il teodolite? In caso affermativo, con quale grado di precisione: il centesimo, il millesimo od il decimillesimo di grado centesimale? Oppure può bastare la bussola? Personalmente ho trovato una valida via di mezzo, tra l’esattezza, l’indipendenza dalle anomalie magnetiche e la complessità del primo e la celerità e l’imprecisione della seconda, nello squadro sferico graduato, che consente precisioni nominali dell'ordine di 5 primi centesimali e celerità del rilievo. Usandolo in abbinamento ad una buona livelletta Abney (che consente letture nominali di 10 primi sessagesimali nelle misure zenitali) posta sul treppiede, si riescono ad ottenere misure probabilmente precise quanto basta per le esigenze del rilievo archeoastronomico ma con un notevole risparmio di tempo, un limitato investimento economico ed una "trasportabilità" della strumentazione non disprezzabile nei surveys (Codebò 1997c).

Mancano però al momento valutazioni statistiche sulla maggiore o minore affidabilità dell'uno o dell'altro strumento, dell'uno o dell'altro algoritmo, ecc. In altre parole non esiste, come detto, una procedura, standardizzata e verificata, utilizzabile entro predefiniti parametri d'errore e condivisa dall'intera comunità scientifica dell'Astronomia Culturale.

Men che mai esistono procedure codificate nei versanti archeologico, etnologico, antropologico, ecc., ossia in quelle discipline che appartengono alle scienze che ho definito sopra umane.

Per esempio, non soltanto non è ancora entrata nell'uso, ma neppure è conosciuta la necessità di orientare astronomicamente le mappe di scavo (Romano 1991, pp. 23-29), che, pur altamente precise nei reciproci rapporti interni tra le strutture od i reperti, sono invece di solito grossolanamente orientate nello spazio con metodi approssimati (magari anche utilizzando rose azimutali con divisioni di 5° in 5°!) che non tengono neppure conto della declinazione magnetica (Bulgarelli, Codebò, De Santis 1998). E' del tutto evidente che la ricerca, a scavo concluso, di eventuali allineamenti astronomici è assolutamente impossibile su mappe così malamente orientate. La conseguenza è che se tali allineamenti vi erano, sono ormai perduti per sempre, esattamente come se lo scavo fosse stato condotto senza registrarne la stratigrafia o le unità stratigrafiche e senza documentarlo sull'apposito giornale. Cito un esempio per tutti: nel 1905 a Pontevecchio di Lunigiana (MS) venne alla luce un allineamento di nove statue-stele ancora in situ (Ambrosi 1972, pp. 44-63). Dopo varie vicissitudini esse furono trasferite al museo di Pontremoli, dove si trovano tutt'oggi. Alla luce delle recenti scoperte sugli allineamenti di statue-stele europee, in particolare di quelle di Saint Martin de Corléans, è molto probabile che anche quelle di Pontevecchio fossero orientate su precisi obiettivi astronomici, ma ciò non potrà mai più essere appurato, perché al momento della rimozione non ne furono studiati e registrati con precisione gli azimut bidirezionali, le altezze d'orizzonte visibile e le coordinate geografiche (Codebò 2006, pp. 247-269). Questo inconveniente è stato evitato nello scavo del cimitero paleocristiano di Acqui Terme (AL) grazie alla lungimiranza del direttore Carlo Varaldo, che ha voluto farmi documentare l'orientamento di ogni singola tomba e della pianta generale (operazione quest'ultima eseguita sia orientando i quattro lati del reticolato, sia materializzando in loco il meridiano locale al mezzogiorno astronomico). In questo modo, anche se lo scavo ha, come sempre, distrutto gran parte dei reperti (le tombe a cappuccina), mentre quelli rimasti (le tombe a cista litica) sono stati nuovamente sepolti sotto l'asfalto di Piazza della Conciliazione, l'accurata registrazione dei dati in pianta ne rende sempre possibile, in qualunque momento del futuro, l'ulteriore approfondimento astronomico. Pontevecchio è un esempio di cosa si deve evitare in archeoastronomia, anche se l'epoca in cui i fatti si svolsero manleva totalmente gli archeologi da ogni responsabilità, perché la disciplina allora era ancora ignorata in Italia, e nella stessa Inghilterra, sua culla, era in corso di formazione. Acqui Terme è invece un esempio di cosa si deve fare per rilevare e conservare anche i dati archeoastronomici. Perché in ultima analisi l'allineamento astronomico di un manufatto archeologico, qualunque sia la sua età, è a tutti gli effetti un vero e proprio reperto di cultura materiale, per giunta probabilmente capace, come le sepolture, di aprirci uno spiraglio sulla cultura intellettuale delle civiltà che lo hanno prodotto (soprattutto di quelle illetterate e quindi "mute" della preistoria). Perciò omettere lo studio ed il rilevamento degli eventuali dati astronomici equivale a distruggere dei reperti. Deve quindi diventare prassi comune e consolidata almeno orientare astronomicamente le piante di scavo e, meglio ancora, applicare sistematicamente l'indagine archeoastronomica in corso d'opera, esattamente come si applicano le tecniche di datazione.

Il problema della perdita definitiva di dati importanti si pone pure in campo etno-antropologico, perché l'esperienza ci sta dimostrando, per esempio con lo studio delle montagne meridiane (Codebò 1997a; 1997b; c.s. 1), come società e culture contemporanee ed in via di scomparsa avessero elaborato una loro specifica astronomia, utile soprattutto - ma non solo! - per la misura empirica del tempo. Questo patrimonio culturale, normalmente trasmesso oralmente di generazione in generazione, se non sarà studiato adeguatamente e registrato prontamente andrà definitivamente perduto con la morte dei suoi ultimi utilizzatori e con l'integrazione dei loro figli nella cultura della società industrializzata, nella quale un orologio è alla portata di chiunque ed i ritmi di lavoro sono stabiliti non più dagli astri ma dalle macchine.

Scompariranno pure gli elementi meno pragmatici e più simbolici, come ha ben documentato Piero Barale in alcune comunità occitane delle valli piemontesi, presso le quali le nostre costellazioni del Toro e di Orione, di antica origine greca, erano interpretate in maniera del tutto diversa e, in un certo senso, inaspettata (Barale 2000).

Infine, due ultimi problemi: la formazione dei futuri archeoastronomi professionisti e la pubblicazione di testi didattici e manualistici.

Al momento della stesura scritta di questo intervento, non esiste in Italia alcun corso di formazione in archeoastronomia. La situazione europea non è molto più confortante: in tutta Europa è attivo, a quanto mi risulta, unicamente un corso presso l'Università di Leicester (UK) tenuto da Clive Ruggles.

In Italia sono stati fatti alcuni tentativi purtroppo senza seguito ed è stato attivato, da parte di Adriano Gaspani, un unico corso puramente divulgativo presso l'UNITRE di Milano. Nessuna Università, nessun Ente pubblico o privato ha istituito corsi di archeoastronomia dedicati ai futuri operatori del campo archeologico e/o conservativo dei Beni Culturali (Codebò 2003). Ciò significa che:

a) da un lato, gli studenti universitari raggiungeranno il loro posto di lavoro senza la minima nozione archeoastronomica;

b) dall'altro, coloro che volessero acquisire anche solo un minimo di basi specifiche, specialmente operative, non saprebbero dove rivolgersi. E' esperienza comune di tutti noi che operiamo nel campo ricevere richieste, soprattuto per e-mail, del tipo: <Vorrei imparare l'archeoastronomia. Dove posso rivolgermi a tal fine?>. Tristemente non possiamo che rispondere: <Da nessuna parte. La formazione archeoastronomica è ancora esclusivamente autodidattica>.

Strettamente connesso con il problema della formazione è quello della manualistica: mentre sono sempre più numerose le relazioni di studi condotti su reperti -talché pian piano si va costituendo quell’archivio di risultati che permetteranno valutazioni statistiche una volta raggiunto un livello di campionamento adeguato - scarse per non dire assenti sono le pubblicazioni di tecnica operativa. Sparse informazioni si possono trovare su taluni libri - per esempio quelli ormai fuori commercio di Alexander Thom - ma un vero e proprio Manuale Operativo manca in qualsiasi lingua.

Ciò non semplifica il compito di chi vuole, nonostante tutto, farsi autodidatticamente una formazione archeoastronomica; espone a gravi incertezze su quelle che sono le metodologie più opportune da adottare e costituisce un ulteriore ostacolo all'attivazione di corsi di formazione.

Ci auguriamo che questo convegno internazionale - il primo organizzato dall'Istituto Internazionale di Studi Liguri, tradizionalmente all'avanguardia nella sperimentazione archeologica - possa costituire un primo passo verso la collaborazione tra tutte le figure professionali coinvolte, in un modo o nell'altro, nella ricerca archeoastronomica ed un contributo alla soluzione dei molteplici problemi, affinché l'astronomia culturale esca dalla sua marginalità e si avvii a diventare a pieno titolo prassi quotidiana della conservazione dei beni culturali.

 

Bibliografia.

 

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