ARCHEOASTRONOMIA LIGUSTICA
Pubblicato in: Bollettino
dell'Osservatorio Astronomico di Genova, n.66, 1994, Genova, pp. 12-20.
I PRIMI
PASSI DI UN ARCHEOASTRONOMO
Mario Codebò
Ogni
volta che a qualcuno racconto che mi interesso di archeoastronomia, invariabilmente
mi sento porre due domande: che cos'è l'archeoastronomia? come sono pervenuto
ad occuparmene? Alla prima domanda ho già cercato di rispondere in [1]‑
alla seconda, su sollecitazione dell'amico Riccardo Balestrieri, rispondo qui.
Galeotto fu il libro I misteri dell'antica Britannia: brutta ed "effettistica"
versione italiana del più serio originale inglese Circles and Standing Stones, pubblicato nel 1975 da Evan Hadingam,
un giornalista scientifico che ha divulgato i severi studi in materia condotti
dai ricercatori anglosassoni, principalmente Alexander e Archibald Thom (padre
e figlio) e Gerald Hawkins.
Non è neppure il caso di menzionare qui la ricca
messe di risultati conseguita da tutti costoro: i curiosi e gli interessati
potranno attingere ad una bibliografia ormai vasta.
All’epoca della lettura di questo libro, nel 1986,
mi occupavo ormai da circa quattro anni di paletnologia, soddisfacendo così una
mia antica passione germogliata fin dalla fanciullezza. Avevo già visitato
tutti i principali siti archeologici del Finalese, percorso tutti i suoi
sentieri segnati e mi accingevo ad iscrivermi (come in effetti feci l’anno
successivo) all'Istituto Internazionale di Studi Liguri, IISL.
La frequentazione della sezione Finalese dell’IISL,
presso il Civico Museo Archeologico di Finale Ligure, mi aveva permesso di
scoprire, tra le varie pubblicazioni, notizie riguardanti presunte strutture di
tipo megalitico (non più di cinque) sparse su tutta la Liguria.
E così, stimolato dalla lettura del testo di Hadingam, più per interesse verso il megalitismo che verso l’archeoastronomia, andai a visitare i cosiddetti menhir di Torre Bastìa, nel territorio comunale di Borgio Verezzi (SV). Confesso, senza falsa modestia, che a prima vista mi resi conto del possibile allineamento di questa struttura sull’equinoziale. Così, tornato sul posto con bussola ed altri strumenti, eseguii le misurazioni necessarie, trovando piena conferma della mia ipotesi.
Negli anni successivi, tornai due volte sul posto
agli equinozi per fotografare il tramonto del Sole sull’allineamento tra la
pietra eretta ed un palo (o una persona) posto ai piedi di quello coricato, dal
lato corrispondente all'allineamento di poco meno i 270° (l’orizzonte visibile,
infatti, è alto circa 60): ne risultarono due complete sequenze fotografiche
che confermano visibilmente l'evento.
Assai meno fortunati furono i tentativi di
fotografare, nella direzione opposta, l’alba equinoziale, perché entrambe le
volte in cui dormii sul posto con la tenda, al mattino la spessa coltre di nubi
occultò il Sole fino a tarda ora. I risultati di questo mio primo studio
archeoastronomico sono stati pubblicati [2].
(Disegno Mario Codebò).
Fig. 1. Pianta
sommaria dei cosiddetti menhìr dì Torre Bastìa (SV).
In a la pietra naturale
tuttora eretta; in b la pietra attualmente coricata al suolo; in c
il frammento più piccolo ritenuto "spezzatosi" dal frammento maggiore
b al momento della supposta caduta al suolo. La linea curva indica il limite
della sommità collinare. La linea tratteggiata indica l'allineamento tra la
pietra naturalmente eretta e la base “meridionale” di quella coricata; su tale
allineamento si vede tramontare il Sole in una sella apparente tra la vetta del
Monte Carmo di Loano a nord e quella del Bric Ciazzalunga a sud. L'azimut 267°
corrisponde alla declinazione del Sole equinoziale con un orizzonte apparente
di altezza circa 6°. Tutta l'area è ricca in superficie di frammenti ceramici
databili a partire dall'Età del Bronzo Medio (fine del Il millennio a.C.).
Dopo la fruttuosa esperienza con i menhir di Torre Bastia, estesi le ricerche agli altri "megaliti" segnalati e, successivamente, a quelli che, via via, con l'intensificarsi delle ricerche di superficie e la collaborazione tra alcuni ricercatori, venivano alla luce. Fu la volta della pietrafitta di Tríora (IM), del menhir di Cian da Munega (SV), del bellissimo dolmen di Verezzi (SV), vicinissimo a Torre Bastía; della pietra di Marcello Dalbuono, della pietra-altare sopra la grotta Strapatente e del circolo a tecnica megalìtìca di Camporotondo, tutti nel Finalese (SV); del complesso di Roccavignale in Val Bormida (SV) e del menhir di Tramonti (SP), oltreché di un certo numero di incisioni cruciformi, sempre nel Finalese, che si sono rivelate orientate verso i quattro punti cardinali, quasi fossero rudimentali rose dei venti.
(Disegno Mario Codebò).
Fig. 2. Rappresentazioni schematiche, tratte da fotografie, del menhir di Cian da Munega (SV).
In a immagine laterale (da monte a mare); in b immagine frontale (da oriente a occidente).
La linea tratteggiata indica la direzione verso la quale probabilmente si vede sorgere la Luna alla sua minima stazione.
E’ possibile che il menhir, attualmente circondato da strade, facesse parte di un più vasto complesso oggi del tutto scomparso.
E' databile alla prima Età del Ferro (VII-V secolo a.C.), in base ai reperti affiorati durante un lavoro di sterro effettuatovi nel secolo scorso.
Recentemente ho misurato anche due strutture cristiane: la chiesa benedettina dell’isolotto di Bergeggi e quella basso-medievale di S. Antonino di Perti: primi tentativi in un settore - quello appunto di età storica - che, benché forse meno affascinante, pure ha rivelato in altre regioni italiane impressionanti implicazioni archeoastronomiche.
(Disegno Mario Codebò).
Fig. 3. Pianta sommaria della struttura litica a dolmen di Verezzi, sul Monte Caprazoppa (Borgio Verezzi, SV).
In tratto continuo: le lastre di pietra della copertura e, in parte, delle pareti; in tratteggio: il perimetro della camera interna.
Sono indicate le declinazioni individuate dagli azimut dei due lati della camera interna, le quali comprendono, come si può vedere, la declinazione del sorgere della Luna sull'orizzonte marino (visibile a circa 64 km di distanza dietro la cima della Rocca dell'Orera, a 300 m s.l.m.) alla sua minima stazione, attualmente pari a –28°36'.
Nel 1990 l’amico Guido Cossard organizzò la campagna di misurazioni sulla necropoli eneolitica (III millennio a.C.) di S. Martin de Corleans, che la Soprintendenza Archeologica della Valle d'Aosta scavava dal 1961 sotto la direzione del dott. Franco Mezzena. I risultati ottenuti dal prof. Giuliano Romano furono resi noti in una conferenza tenuta la sera del 29 novembre di quell'anno e pubblicati alcuni mesi dopo [3].
Tuttora essi costituiscono, per la loro
eccezionalità, una pietra miliare nello studio dell’archeoastronomia europea.
(Disegno Mario Codebò).
Fig. 4. Pianta schematica dell'allineamento del menhir di Tramonti o trilite di Schiara (SP).
In a il trilite; b rappresenta il muro detto “posatoio”; c, un muro di contenimento della collina soprastante; d, il ciglio del pianoro su cui giace il complesso; e, lo spazio tra il “posatoio” ed il muro di contenimento della collina soprastante, nel quale giacciono numerose pietre affusolate ritenute far parte del supposto cromlech originario; f, terreno dal quale emergono numerose pietre, due delle quali con fori, ritenute resti della struttura originaria; g, attuale strada sterrata.
Secondo Manuguerra [4], l'ombra del menhir al tramonto del solstizio d’inverno - sull'orizzonte marino - divide esattamente a metà la parte di "posatoio" ritenuta più antica (verso sud-est). Misure prese nel giugno scorso dal prof. Romano con il teodolite, agli estremi del muro, hanno dato declinazioni tra –16° e –36°.
Con il passare degli anni e l’intensificarsi degli
studi venni in contatto con altri studiosi della materia. Ciò ha consentito,
oltre agli scambi di notizie e materiali, anche una "maturazione" del
problema in ambito ligure. Infatti, come ho già accennato, agli inizi le
ricerche archeoastronomiche suscitarono molta perplessità e talora, in
qualcuno, perfino una sorta di ilarità. Ma il moltiplicarsi delle pubblicazioni
specifiche, lo svolgimento di ben tre congressi italiani di archeoastronomia,
l’eccezionale scoperta del sito di S. Martin de Corleans, hanno costretto anche
i più scettici ad alcuni ripensamenti.
(Disegno Mario Codebò).
Fig. 5. La pietra-fitta della dolina di S. Lorenzo (IM), a 1400 m s.l.m. (da una fotografia).
In a vista frontale (da sud-sud-ovest); in b vista laterale (da nord).
La pietra, intenzionalmente sagomata in forma di lastra carenata, sembra individuare sull'orizzonte visibile delle Alpi Marittime una piccola sella in cui tramonterebbe il Sole al solstizio d'inverno (linea tratteggiata in b). La pietra, alta circa 190 cm, larga 60 cm e spessa 1÷20 cm, è infissa nel terreno con un'inclinazione di 40° sul bordo occidentale di un'ampia e profonda dolina al cui interno esistono i ruderi di un complesso gias (recinto in pietra a secco per l'alpeggio degli animali), con ripari sottoroccia ed un masso piatto con una grande coppella ovale, con canaletto di scolo, da taluni interpretato come masso-altare. Il luogo è crocevia di sentieri un tempo molto importanti. La sacralità pagana troverebbe conferma nell'esistenza, sul margine orientale della dolina, dei ruderi di una cappella dedicata a S. Lorenzo per esorcizzare e "cristianizzare" il luogo, Secondo Felolo [5] e Magaglio [6], esempi di questo genere sono molto frequenti in montagna.
Purtroppo sull’archeoastronomia grava sempre la
pesante eredità di precedenti autori che, sovvertendo la metodologia della
ricerca scientifica, affascinati forse dalle loro stesse teorie, hanno lavorato
più di fantasia che di ragione. E' il costante problema di ogni ricercatore del
campo: trovarsi tra l'incudine delle teorie fantascientifiche ed il martello
della diffidenza, talora un po' preconcetta, dei ricercatori più ortodossi.
Perciò uno dei compiti dello studioso di
archeoastronomia diventa, allo stato attuale delle cose, non solo convincere su
una materia ancora sostanzialmente ignota e del tutto nuova (le cui ricerche
sono, di fatto, ancora ad un vero e proprio stadio “pionieristico”), ma anche
creare rigorose tecniche di misurazione e metodologie capaci di fugare le
diffidenze giustamente generatesi nel passato.
Un secondo problema è costituito dalla dibattuta
questione relativa alla presenza del megalitismo nell'Italia peninsulare in
generale, e più in particolare in Liguria.
Fino a pochi decenni or sono era ferrea dottrina
archeologica che la corrente culturale megalitica non avesse mai varcato la
soglia della catena alpina, considerata una barriera invalicabile. L'Italia
peninsulare era considerata del tutto estranea al fenomeno con l’unica
eccezione della Puglia, i cui menhir, dolmen e "specchie" (tumuli)
erano attribuiti a occasionali navigatori di provenienza balcanica, o comunque
ad influenze transadriatiche. Si ammetteva solo, per il resto della penisola,
lo sviluppo della civiltà dei castellari e, in alcune zone come la nostra
Lunigiana, l’Alto Adige e la Daunia, di quella delle statue stele. Ma il
passaggio, per esempio, dal menhir aniconico alle statue stele, ben documentata
altrove, era da noi del tutto sconosciuto.
Ovviamente già allora si sapeva che le isole del
Mediterraneo avevano seguito un'evoluzione diversa che, in molti casi, le ha
portate a sviluppare una cultura megalitica peculiare ed estremamente ricca.
Per di più, fino all'avvento delle datazioni con
radionuclidi era dottrina archeologica altrettanto ferrea che il megalitismo
fosse nato, come ogni altra manifestazione culturale, nel vicino Oriente - ivi
compresa la Grecia e particolarmente le sue isole egee - e da questa
"culla di civiltà" si fosse diffuso per varie vie - soprattutto
fluviali e al seguito dei mercanti verso l'Europa occidentale. Da questo punto
di vista i grandi complessi inglesi e bretoni erano considerati l’ultima fase,
in termini di spazio e di tempo, di questa corrente culturale e la loro
monumentalità era portata a prova ulteriore di ciò.
Nell'Italia, priva di grandi vie fluviali
continentali, si ammetteva soltanto l’arrivo di popolazioni di naviganti sulle
coste dove, occasionalmente, avrebbero lasciato sporadiche testimonianze, come
in Puglia ed in Lunigiana (quest'ultima per influenza corsa).
Oggi sappiamo come le cose siano andate ben
diversamente: il megalitismo si ritiene nato nell'Europa nord-occidentale e
diffuso verso Oriente; ha seguito sì le maggiori vie fluviali ma anche quelle
minori; è stato più una produzione autoctona a partire, forse, da un'idea
importata, piuttosto che una corrente preconfezionata viaggiante in tutto il
continente.
A mio parere, poi, esso si configura come
particolare evoluzione del rapporto che le società preistoriche ebbero con il
materiale a loro disposizione con la maggiore abbondanza: la pietra.
Nel momento in cui gli strumenti d'uso quotidiano
subivano il processo della microlitizzazione; nel momento in cui i metalli si
diffondevano, relegando la pietra ad un ruolo se non secondario almeno
paritario; nel momento in cui cambiava radicalmente l’economia di sussistenza
dalla caccia-raccolta alla pastorizia-agricoltura e, quindi, anche la tipologia
dell’insediamento passava dai ripari mobili od occasionali del nomade ai
villaggi stanziali; in quel lungo momento la pietra ha forse cessato di essere
oggetto d'uso pratico ed è divenuta “monumento”: funebre o religioso, o
politico - nel senso dell’espressione del potere dei capi - o, infine,
militare, verso la fine dell'età del bronzo, quando si cominciarono a costruire
le città fortificate da mura ciclopiche.
Tanto è vero che le prime manifestazioni del
megalitismo - i tumuli sepolcrali collettivi di Hoedic e Teviec in Bretagna e
di Muge in Portogallo [7] appartengono al mesolitico quando, terminata la
glaciazione di Wurm attorno al X millennio a.C., alcuni gruppi umani costieri
cominciarono a sviluppare un'economia che può collocarsi tra il puro nomadismo
del cacciatore e la netta stanzialità dell’agricoltore: essi divennero
pescatori e raccoglitori di prodotti marini, soprattutto molluschi. Ciò, se non
permetteva ancora di "programmare" la produzione del cibo attraverso
il lavoro costante dei campi, manlevava però dall’obbligo dell'inseguimento
degli animali in migrazione. E non è certamente neppure un caso che la maggiore
concentrazione di complessi megalitici si abbia proprio lungo le coste.
Ovviamente questa descrizione, che farebbe storcere
il naso ad ogni specialista, è solo una pennellata a grandissime linee di
un'evoluzione durata quasi diecimila anni.
Oggi in Italia, seppure a fatica, comincia a farsi
strada fra gli archeologi la consapevolezza dell'esistenza e dell'importanza
degli orientamenti astronomici nelle culture antiche. Lo testimoniano, fra
l'altro, ben tre congressi internazionali di archeoastronomia, tenutisi a
Brugine (PD) nel 1985, a Venezia nel 1989 e a Roma nel 1994, con la partecipazione
di relatori italiani e stranieri, di archeologi e astronomi.
La Liguria, come purtroppo spesso accade alla nostra
regione, è fino ad ora rimasta, almeno ufficialmente, ai margini.
Data solo al 19/11/1994, in occasione della
presentazione di un libro di Enrico Calzolari [8], la convergenza a La Spezia
di pressoché tutti i ricercatori liguri del settore, tutti volontari non
professionisti, appartenenti a differenti associazioni; erano rappresentate:
quattro associazioni di astrofili, due associazioni archeologiche e due sezioni
del Club Alpino Italiano, il primo ad avere dato spazio a questa ricerca, nel
nome della sua vocazione scientifica, benché certo con compiti
istituzionalmente assai lontani. In quella sede si è preso atto della presenza
di una massa di materiale di studio tale da richiedere ormai un lavoro
coordinato e ben organizzato e della opportunità di incontrarsi nuovamente in
apposite giornate di studio, sia pubbliche che private.
Si cercherà di coinvolgere gli archeologi
professionisti e le rispettive istituzioni e si dovrà affrontare il grave
problema della pubblicazione degli studi condotti: non soltanto in Liguria ma
nell’Italia intera manca tutt'oggi una rivista specializzata nel settore, sì
che le pubblicazioni sono disperse in una molteplicità di testate. Mancano
anche banche dati e canali “fisici” di collegamento.
I passi che fino ad ora sono stati compiuti
lasciano, però, sperare bene.
Bibliografia.
[1] M. Codebò, Le
cime, i profili, le ombre dei monti: calendari preistorici, Club Alpino
Italiano - Rivista della Sezione Ligure, n. 2 (1994).
[2] M. Codebò, I
menhir di Torre Bastia, Noliziario C.A.I. Sez. Ligure - Sottosez.
Bolzaneto, n. 11 (1993).
[3] G. Cossard, F. Mezzena, G. Romano, Il significato astronomico del sito megalitico
di Saint Martin de Corléans ad Aosta (Aosta, Tecnimage, 1991).
[4] M. Manuguerra, Il menhir di Tramonti nel solstizio d’inverno, La Spezia Oggi, 15
(1987), n. I.
[5] L. Felolo, Le
streghe di Triora vestali del Sole?, R nì d'aigúra, n. 16 (1991).
[6] G. Magaglio, Le
pietre di Teco, R nì d'aigúra, n. 15 (1991).
[7] E. Bernardini, Guida alle civiltà megalitiche (Firenze, Vallecchi, 1977).
[8] E. Calzolari, La comunità di Fabiano. Segni, riti e miti di Indoeuropei, Celti ed
Ariani sulle alture del golfo di La Spezia (La Spezia, Luna Editore, 1994).