ARCHEOASTRONOMIA LIGUSTICA

 


Pubblicato in:
Atti del XVII Congresso Nazionale di Storia della Fisica e dell'Astronomia, Università degli Studi di Milano - Istituto di Fisica Generale Applicata – Sez. di Storia della Fisica, Milano, 1998, pp. 341-358.


UN PERCORSO RITUALE SULLE PENDICI MERIDIONALI DEL MONTE BEIGUA (SV)?

 

Manuela Michelini, Mario Codebò

 

1) PREMESSA.

Il titolo di questo lavoro è interlocutorio perché gli elementi emersi in un anno d'indagine di superficie tra il XVI ed il XVII Congresso Nazionale di Storia della Fisica e dell'Astronomia non hanno permesso di ottenere una risposta certa, benché abbiano pian piano fatto sorgere il sospetto di trovarsi di fronte, per l'appunto, ad un complesso sacrale.

Anche il titolo originario (Indagini archeoastronomiche in Liguria dal maggio 1996 al maggio 1997) è stato cambiato perché mano a mano che le ricerche procedevano la nostra attenzione si è concentrata su quest'unica area archeologica particolarmente ricca.

Delineeremo pertanto un percorso che si snoda a quota quasi costante tra i m. 350 ed i m. 675 s.l.m., nel quale pensiamo si possa ravvisare quasi un percorso   sacrale da W, sede dell'insediamento neolitico principale, verso E, sede del complesso "megalitico" ritenuto cultuale.

 

 

2) INTRODUZIONE.

In Liguria l'area del M. Bèigua riveste da tempo un notevole interesse archeologico, che, negli ultimi decenni si è rapidamente moltiplicato per un susseguirsi serrato di ritrovamenti.

Già nel secolo scorso il Prof. Arturo Issel, Dom Pietro Deogratias Perrando, il Sig. Giovanni Battista Rossi e Dom Niccolò Morelli (N. Morelli 1901; Vicino, Matteoni, Dabove 1990) effettuarono ritrovamenti e segnalazioni nell'area NW della montagna: il cosiddetto "Sassellese". Frequentato fin dal paleolitico inferiore, come dimostrano i bifacciali acheuleani ritrovati dal Perrando (Vicino, Matteoni, Dabove 1990, pp. 12 e 17), fu soprattutto nel neolitico che si raggiunse forse il vertice dello sviluppo delle culture umane preistoriche con una produzione quasi "industriale" di manufatti, esportati anche molto lontano, nella caratteristica pietra verde "levigata" del M. Bèigua.

In tempi più recenti un gran numero di segnalazioni e ritrovamenti su tutti i versanti della montagna ha confermato l'intensa frequentazione del sito ed ha permesso di formulare l'ipotesi che essa fosse una montagna sacra degli antichi Liguri (Pucci 1997, pp. 18-20).

 

 

3) INQUADRAMENTO GEOLOGICO.

Come già accennato in un precedente lavoro (Codebò 1997a), l'area è caratterizzata dalla presenza di rocce ofiolitiche del ciclo orogenico alpino, ossia serpentine (verdi) con rocce metamorfiche eclogitiche, dovute ad un vulcanismo marino.  Esse iniziano dall'asse geografico Sestri Ponente-Voltaggio (sostanzialmente il versante occidentale della Val Polcevera di Genova) per terminare circa a Savona, dove iniziano formazioni sedimentarie: è in questa zona che s’individua attualmente l'inizio della catena alpina (Aubouin e Brousse 1977, p. 476).

 

 

4) INQUADRAMENTO STORICO-ARCHEOLOGICO.

Come abbiamo accennato più sopra la presenza dell'uomo è attestata in zona fin dal paleolitico inferiore.

Nel neolitico si ebbe forse il massimo sviluppo culturale preistorico: gruppi umani molto specializzati si misero in grado di estrarre e lavorare i serpentini verdi per produrre una vasta quantità di strumenti di ottima qualità che venivano esportati anche a distanze molto grandi. Questi artigiani neolitici avevano sviluppato la capacità di usare per ciascun tipo di strumento il serpentino più adatto: quello resistente all'abrasione per i macinelli, quello resistente alla percussione per le asce levigate, ecc. (T. Mannoni, conferenza tenuta all'I.I.S.L. di Genova). Ciò testimonia l'alto livello culturale e tecnologico raggiunto.
Mentre le Età dei Metalli sembrerebbero avere visto anche qui quella trasformazione culturale generale un tempo reputata un arresto, attardamento od impoverimento delle genti liguri (Bernabò Brea 1947, pp. 23-27) e solo successivamente valutata nella sua reale dimensione di cambiamento dello stile di vita in cui spicca il passaggio dall'abitazione in grotta a quella nel villaggio, riservando alla grotta la sola funzione sepolcrale (Bernardini 1982, p. 69; AA.VV. 1983, pp. 49-50), la conquista romana comportò la fondazione, in zona, di almeno due importanti insediamenti: la mansio di Alba Docilia (attuale Albisola) ed i cantieri nautici di Ad Navalia (identificata con l'attuale Varazze) (Bernardini 1981, pp. 157-167; AA.VV. 1986, pp. 43-45). In particolare quest'ultima località, ai piedi del M. Bèigua, si riforniva per la sua attività dagli estesissimi boschi ad alto fusto che ricoprivano, ancora fino a qualche secolo fa, tutti i versanti della montagna e del cui sfruttamento fin dalla preistoria è testimone la grande abbondanza di asce in pietra verde levigata trovate nel comprensorio di Sassello. In proposito sembra che alla fine del XVI secolo d.C. il versante marittimo del M. Bèigua risultasse ormai spogliato del suo manto boscoso dalle esigenze cantieristiche della Repubblica di Genova e che lo sfruttamento silvicolo industriale sia proseguito, soprattutto sul versante padano, fino al secolo scorso, quando, nella sola zona di Tiglieto, si trasformavano in carbone ben 1750 tonnellate di legname all'anno (Montanari 1991).

La zona, entrata a far parte nell'Alto Medioevo della Marca Aleramica, vide i monaci cistercensi insediarsi a N dal 1120 al XV secolo in Tiglieto, fondandovi la loro prima abbazia italiana, e nel 1192 a Invrea (o, forse, più esattamente Ivrea), sul mare, fondandovi un monastero femminile (con due annessi ospitali per pellegrini: maschi e femmine), attualmente noto come S. Maria del Latronorio, abbandonato dalle monache nel 1535 ed attualmente di proprietà del marchese d'I(n)vrea.
Nel XVII secolo si ebbe un terzo insediamento monastico a metà costa delle pendici meridionali del monte ad opera dei religiosi riformati da S. Teresa d'Avila e S. Giovanni della Croce (cosiddetti carmelitani scalzi), i quali vi eressero il "Convento del Deserto di Varazze", tutt'ora da loro officiato.
E' probabile chela gran parte dei simboli cristiani incisi sulle rocce, soprattutto del versante settentrionale, sia da attribuire a queste comunità monastiche, in particolare a quella di Tiglieto, o, comunque, alla "religiosità" che sempre si sviluppò sulla montagna, tradizionalmente considerata santuario, tanto che ancor oggi, nella chiesetta dedicata a N.S. del M. Carmelo, patrona dell'Ordine Carmelitano Scalzo, sulla vetta ormai sommersa da decine di deturpanti antenne, si svolge un pellegrinaggio con festa e S. Messa il 16 luglio di ogni anno.

Pian piano la Repubblica Oligarchica di Genova estese il suo dominio sulla zona, mantenendolo fino alle vicende napoleoniche ed alla successiva annessione al regno sabaudo (per più dettagliate notizie su Varazze ed i suoi dintorni, si veda in Garea 1957; 1965).

 

 

5) INQUADRAMENTO TOPONOMASTICO.

Non può sfuggire a nessuno la somiglianza tra il nome del locale M. Bèigua ed il francese M. Bégo.

Quest'ultimo, come è noto, è, con la Valcamonica, uno dei due più importanti ed estesi centri di arte rupestre italica (passò alla Francia nel 1947), con circa 100.000 incisioni dal tardo neolitico alla dominazione romana (ed oltre), ed è ormai considerato una vera e propria montagna sacra (o santuario) degli antichi Liguri pre-indoeuropei (poi indoeuropeizzati ed infine   romanizzati) (AA.VV. 1983, p.52-53; Bernardini 1975, pp. 61-94; 1981, pp. 70-75; 1982, pp. 109-123; Bicknell 1913; Conti 1972; Isetti 1965; Lamboglia 1982, pp. 25-27; Louis e Isetti 1974; Mennella 1992, pp. 13-31; Priuli e Pucci 1994, pp. 12-18; Pucci 1997, pp. 15-17).

Quando si cominciò a scoprire anche nell'area del M. Bèigua tracce di   insediamenti   preistorici e   petroglifi, venne spontaneo associare linguisticamente i due nomi.
Già Mario Garea, studioso varazzese, riteneva che il nome Bèigua derivasse dal dio-ariete Begu e che il suo simulacro fosse da riconoscersi in una testa d'ariete in arenaria da lui trovata sulla vetta del monte all'apice di una sorta di piramide tronca di pietre a secco (Garea 1957, p. 4; 1ø, p. 6). Altri associano i nomi dei due monti alla divinità alpina Baigus, che in zona pirenaica prenderebbe il nome di Baigorix (Priuli, Pucci 1994, pp. 62-63).
Noi desideriamo evidenziare la somiglianza di questi fonemi con il termine dialettale triorese "bagiue", ossia le bàsure, vale a dire le streghe.
Sembrerebbe, infine, che l'origine comune dei due toponimi sia da ricercarsi   nella radice pre-indoeuropea *bek, significante, appunto, il maschio della capra (domestica o selvatica), da cui il latino "ibicem" e l'italiano "becco" con lo stesso significato (Cortelazzo e Zolli 1979, vol. I, p. 127; Priuli, Pucci 1994, pp. 62-63).
Italo Pucci, nel Suo libro "Culti naturalistici della Liguria antica"   del   1997,   amplia   notevolmente   l'indagine   sulle similitudini tra le due montagne. In particolare cita:

1) l'apparentemente comune origine del nome,

2) la comune presenza di abbondanti pascoli, boschi ed acque, sì da farne zone ideali per l'alpeggio e l'allevamento;

3) la comune predominanza sulle cime circostanti, tutte più basse;

4) la grande abbondanza di petroglifi che denunciano comunque un culto scritto nella roccia (benché sul M. Bèigua, a nostro parere, sembri al momento prevalere quello cristiano);

5) la comune presenza di toponimi in qualche modo legati alla magia ed al male e, quindi, probabilmente denuncianti più arcaiche divinità pagane poi demonizzate dal Cristianesimo:

a) sul M. Bégo: la Val d'Enfer, la Cime ed il Lac du Diable, la Valmasque;

b) sul M. Bèigua: il M. Priafaia, la località Le Faie, Faiabella, la cima di Masca, il colle della Masca, il rio della Masca.

6) la comune presenza di alcuni toponimi che sembrerebbero legati a divinità pagane (es. i monti Armetta ed Ermetta, derivabili dal greco Hermes ed il M. Tarin‚, derivabile dal dio celtico Taranis).

 

 

6) ALPICELLA INSEDIAMENTO "CELTICO".

E' questa una delle ipotesi ventilate recentemente, sulla base del fatto che il dialetto locale presenta notevoli differenze da quelle dei paesi finitimi e che in esso sembrerebbero presenti elementi linguistici centro-europei. A ciò si aggiunge il fatto che dal Sig. Mario Fenoglio sono state riconosciute nella zona abitazioni di tipologia costruttiva cosiddetta "celtica".  Si tratta di case in pietre a secco con facciate che si sopraelevano a triangolo a gradoni rispetto alle pareti laterali; tra i due vertici è teso un grande palo di legno destinato a sorreggere un graticcio bilaterale di rami sul quale è abbondantemente stesa della paglia o del fieno. Il tetto così ottenuto resta come contenuto tra i profili a gradoni delle facciate, anziché debordare sull'alzato. Questa tipologia è ben documentata in Francia ed in quelle zone d'Italia dove sono accertati il passaggio e l'insediamento in epoca classica di popolazioni celtiche [come, per es., nell'Ormeasco (CN) e nel Modenese]. Sulla base di ciò si è avanzata l'ipotesi che all'origine dell'Alpicella vi sia l'antico insediamento di un nucleo di queste popolazioni nel corso della loro penetrazione in Italia, probabilmente nel IV secolo a.C., alcune caratteristiche delle quali sarebbero rimaste vive ancora oggi.

 

 

7) INQUADRAMENTO MAGICO-RELIGIOSO.

Nell'area ligure, che probabilmente ha subito poco l'acculturazione dei dominatori romani, specie nelle aree montuose più impervie, talora sembrano essere   sopravvissute in età cristiana vere e proprie reminiscenze magico-religiose pre o proto-storiche.

Le "faie" (francese fée; latino fatum) sono le fate (non necessariamente benigne, come insegna in particolare la mitologia gaelica), mentre le "masche" sono una sorta di spiriti o fantasmi, che vagano alla ricerca di vittime umane. Spesso identificate con le "strie" (ossia le streghe, che però sono persone in carne ed ossa), le masche (Moriani 1995, pp. 28-32) sono più propriamente assimilabili alle lamiae e alle empouses (sorta di vampiri femminili) o alle larvae (spiriti maligni dei malvagi defunti) ed ai lemures (spiriti degli antenati defunti che bisognava periodicamente placare) della religione greco-romana.

Senza entrare nel dettaglio di tutti questi démoni della religione pagana (per i dettagli dei quali rinviamo i lettori ai trattati ed ai dizionari specialistici, nonché a Petoia 1991), vogliamo sottolineare la comune matrice della pericolosità o nocività per i viventi della loro azione. Talora le caratteristiche ambientali e meteorologiche avverse giustificano pienamente certi toponimi (è il caso di molte Val d'Inferno, veramente inospitali nella stagione invernale), ma talaltra sembra proprio che essi siano legati e legabili a reminiscenze superstiziose e paganeggianti mai completamente dimenticate. Infatti, nella zona delle Alpi Liguri e Marittime paiono annidarsi persistentemente nuclei di paganesimo (Codebò 1997b), che, forse, hanno la loro maggiore espressione nel mito del "servan" (infra) e delle streghe di Triora (Felolo 1991-1992; Oddo 1994).

E' interessante notare come questi personaggi mostrino alcuni tratti che hanno qualcosa a che vedere con il tempo atmosferico e con gli astri.
Il "servan" (l'uomo dei boschi, sorta di benigno Yeti alpino dall'aspetto fisico di sileno, profondo conoscitore e maestro della pastorizia e della lavorazione dei relativi prodotti, malgaro per conto terzi) ha un particolarissimo rapporto con le condizioni meteorologiche: esegue sempre il suo lavoro con il sole, la pioggia e la neve, ma fugge terrorizzato quando tira vento, per lui vero e proprio maltempo (Centini 1989; Pellegrino 1994, pp. 3-11; 1995, pp. 11-17; Alberti 1995, pp. 18-20).
Le empuse e le lamie erano spesso spettri meridiani, ossia comparivano alle due estreme ore della giornata (oltreché nel corso della notte): mezzogiorno e mezzanotte.
L'ariete è animale-totem della preistoria. Esso fa parte di quella gamma di animali cornuti domesticati di media e grossa taglia che costituivano evidentemente la ricchezza dei pastori neolitici. Il bue o toro è sicuramente rappresentato migliaia di volte, sia in forma schematica di U che aggiogato all'aratro, nei petroglifi di M.   Bégo e della Valcamonica, ma a nostro parere è anche ipotizzabile che i segni a Y o a gamma siano interpretabili piuttosto come simboli dell'ariete (che, al contrario del toro, ha corna spiraliformi). Recentemente sia l'uno che l'altro segno sono stati rinvenuti anche nel Finalese (SV), non lungi dall'area del M. Bèigua (Fella e Zennaro 1991).
Nella mitologia greca l'ariete più celebre è quello dal vello d'oro, che trasportò in salvo Frisso ed Elle dalla Grecia alla Colchide. E' animale astrale perché volava e perché fu posto, dopo il sacrificio, tra le costellazioni dello zodiaco. Il fatto che la Colchide, terra di magia, sia il paese del sole nascente (Medea è maga potente ed Eeta è figlio del Sole, fratello di Circe, altra maga, e di Pasifae, che notoriamente ebbe intimi rapporti con i tori) può rafforzare tale caratteristica. Esso, però, è anche animale  del  sacrificio:  Enomao lo  sacrifica  a  Zeus prima  di lanciarsi all'inseguimento dei pretendenti della figlia Ippodamia, i  quali, una volta  raggiunti, vengono regolarmente  uccisi. Solo Pelope, il quattordicesimo o tredicesimo tra loro, sopravviverà, uccidendo anzi il feroce suocero. Kàroly Kerényi fa notare però che l'ariete era forse sacrificato ad Artemide, dea ben più feroce adusa   ai sacrifici umani (Kerényi 1989, p. 295) e che i pretendenti uccisi sono dodici come i mesi dell'anno, tredici se si considera il mese bisestile (sic ! Noi invece preferiremmo vedere in questo simbolismo i tredici mesi del calendario lunare raffrontati ai dodici di quello solare) (Kerényi 1989, p. 293). Del resto Pelope appartiene ad una stirpe sanguinaria in cui per ben due volte si è praticato il cannibalismo del genitore (Tantalo e, poi, il suo bisnipote Tieste) sui figli (Pelope e, poi, i suoi bisnipoti), nonché altri efferati delitti familiari (saga degli Atridi, Orestea, ecc., in cui appare anche un agnello dal vello d'oro, di proprietà di Atreo ma rubatogli dal fratello Tieste: sarà proprio esso che causerà l'orrendo banchetto cannibalico approntato dal primo al secondo con le carni dei figli di quest'ultimo ed a sua insaputa).

In un ambito culturale del tutto diverso ritroviamo la medesima identità in termini ancora più chiari: Abramo, fermato da Dio, sacrificò un ariete al posto di Isacco (Gen. 22,13).

Ci pare quindi condivisibile da queste vicende l'affermazione di Kerényi che il sacrificio dell'ariete sostituisca o simboleggi quello umano (Kerényi 1989, p. 312).
Comunemente sembra esserci una certa differenza tra l'ariete ed il capro: il primo è assurto a simbolo di bontà, purezza e perfezione, mentre il secondo di lascivia e malignità, fino a simboleggiare il satana nel sabba delle streghe. In Levitico 16, dopo aver sacrificato un toro ed un ariete, dei due capri quello destinato per sorte al demone Azazel verrà "spinto" nel deserto dopo essere stato caricato espiatoriamente di tutte le colpe, le impurità e gli errori (lat.: peccata) del popolo.
Nella versione greca dei LXX ed in quella vulgata di S. Girolamo, sono espressamente citati - in Is 13,21 e 34,14 - i satiri (lat.: pilosi), in luogo dell'ebraico "capri", tra gli animali che si daranno convegno notturno insieme agli spettri tra i ruderi delle città nemiche di Israele colpite dall'ira di Dio (Adonai).

In Mt. 25,32-33 gli ovini simboleggiano i giusti ed i caprini i malvagi.

Il capro è anche animale "tragico". Tragedia significa letteralmente "canto del capro" e pare che derivi dai canti che accompagnavano il sacrificio di questo animale a Dioniso e dalle relative processioni. Ma Dioniso è dio ambivalente, perché nato due volte, travestito da femmina, morto, resuscitato e asceso finalmente all'Olimpo; egli si tramutò anche in capretto ed ebbe questo animale per sacro. Ci sembra che il capro, nella sua sfrenata lussuria, rappresenti bene l'eroe tragico dal destino ambivalente, che, spinto da una forza cogente ed incontrastabile, va incontro alla propria distruzione, come Edipo, Faust e Don Juan Tenorio, mentre lo spettro di Achille dirà ad Ulisse "...Io torrei pria servir bifolco per mercede...che del mondo defunto aver l'impero..." (Odissea XI, 614-617). Pensiamo che questo aspetto "tragico" del capro, biologicamente affine all'ariete, confermi la funzione sacrificale di quest'ultimo in luogo della vittima umana, di memoria più arcaica e rimossa.
Infine il corno o le corna - parte per il tutto - sono simbolo di potenza: l'altare di Adonai ha quattro corni a ciascun lato (Es. 27,2) (essi, però, possono anche indicare la quadripartizione cultuale dello spazio. Crf. Codebò 2ø; Devoto 1977, pp. 16-17, 20) e lo sciofar - corno di montone citato molte volte nell'Antico Testamento - fa parte delle teofanie (Es. 19,19; 20,18), è terribile strumento di guerra (Gdc. 7,15-22) e provoca la caduta delle mura di Gerico (Gs. 6).
Dotati di corna erano i seguenti dei: il celtico Cernunnos con corna di cervo, gli egizi Hator ed Amon (quest'ultimo con testa d'ariete), la semitica Astarte (Isthar, Iside, Tanit, ecc.).

Più anticamente, nella città neolitica di Catal Huyuk i numerosi templi forse domestici erano rivestiti di corna e/o teste taurine e di arieti, mentre ibridi umani ed animali con corna sono rappresentati tra i petroglifi del Paleolitico Superiore di Trois Frères. Luigi Felolo ha fatto notare come, curiosamente, nel IV e III millennio a.C., quando furono massimamente rappresentati sulle rocce della Valcamonica e del M. Bégo le varie tipologie di bucrani e bovidi, il punto vernale stazionava proprio nella costellazione del toro (comunicazione personale), la quale, a sua volta, pare essere la più antica conosciuta e nominata dall'uomo (Romano 1991, pp. 14-16).
 

 

8) I SITI ARCHEOLOGICI DEL VERSANTE MERIDIONALE DEL M. BEIGUA ED I LORO ELEMENTI ARCHEOASTRONOMICI.

8.1) Il riparo sotto roccia di località Fenestrelle.

A quota m. 350 s.l.m., presso l'abitato di Alpicella - l'unico antico insediamento umano della zona, originariamente posto più in alto, nel Medioevo, in località "smoggie" (Pizzorno Brusarosco 1990, p. 23; Lorenzo Caviglia, comunicazione personale), ossia le "marcite", gli "acquitrini", essendo tutti gli altri molto più recenti - si trova il sito più importante. Scoperto nel 1977 dal Sig. Mario Fenoglio, ispettore onorario della Soprintendenza Archeologica della Liguria e scavato da quest'ultima sotto la direzione del Dott. Gian Piero Martino, ha restituito cospicue tracce di frequentazione, presumibilmente stagionale, in due distinti periodi nei due settori in cui si divide (Martino 1984, pp. 149-152; 1987, pp. 101-105; Vicino 1987, pp. 105-107; Corrain 1987, 108; Martino 1988, 25-28; Martino, Sfrecola, Arobba, Vicino 1991, pp. 13-20):

a) in quello di ponente il Neolitico Medio, con abbondanti reperti della tipica cultura ligure del "vaso a bocca quadrata (v.b.q.)" ed una sepoltura secondaria di bambina (cranio in cista litica) ed il Neolitico Finale con lo Chassey ligure;

b) in quello di levante la prima-media Età del Bronzo fino alle prime due fasi del Bronzo Finale.

Per l'abbondanza del materiale, questo riparo sembra   avere costituito la base stagionale dei frequentatori della zona, forse a scopo di alpeggio.  In esso non abbiamo eseguito rilievi archeoastronomici: poniamo solo in luce la sua buona insolazione verso SW.

 

8.2) Il nicciu du briccu du Broxin - lat. 44°24'23"N, long. 8°32'08"E, q.m. 485 s.l.m. (CTR 1:10.000).

Dal riparo sopra citato, percorrendo prima un sentiero, poi la strada asfaltata, si perviene all'abitato di Alpicella, dove il Sig. Fenoglio ha allestito un museo dei reperti preistorici della zona (Fenoglio 1991, pp. 67-69), nelle vicinanze del quale esisterebbe un altro masso a polissoir, secondo quanto ci è stato riferito recentissimamente dal Dott. Vicino. Dalla piazza centrale del paese si sale, per mulattiera, fino al Nicciu du briccu du Broxin, singolare nicchia votiva inglobante una pietra-fitta in serpentino alta circa m.2, con spessore circa cm. 10-15, di forma quadrangolare a spigoli molto arrotondati.
Nella zona tra Alpicella e Le Faie sono abbastanza numerose le nicchie votive, ma nessuna ha la conformazione di questa, alta circa m. 3,5-4. Sul fronte si legge la data 1912. L'impressione che se ne ricava è che sia stata costruita più alta del solito e con un abside inferiore, sia pure stretto, appositamente per inglobare la pietra-fitta preesistente. Per altro, le pietre che formano il tetto della nicchia hanno le medesime caratteristiche del menhir: sono in serpentino verde e di forma allungata e quadrangolare, benché assai più corte; essendo parte integrante della nicchia, sembrano ascrivere la pietra-fitta al medesimo modulo costruttivo di quella.  Si era pensato in un primo tempo (Codebò 1997b) che il monolito fosse allineato, per il tramite delle cime di Bric Cast‚ e di M. Castellaro (toponimi significativi di insediamenti protostorici ! Crf. Pizzorno Brusarosco 1990, p. 23), rispettivamente con il punto di levata e di tramonto del sole al solstizio d'inverno, ma successive indagini sembrerebbero escluderlo, benché la complessità geomorfologica del paesaggio imponga, prima di una conclusione definitiva, una valutazione più approfondita. Perciò al momento preferiamo sospendere ogni giudizio in merito. Facciamo soltanto notare che questa singolare costruzione si trova lungo il sentiero che congiunge per qualche chilometro un complesso di strutture di interesse paletnologico. Interessante anche il fatto che è in posizione dominante e presso una sorgente, oggi intercettata.

 

8.3) Il riparo di S. Anna - lat. 44°24'03"N, long. 8°32'41"E, q.m. 675 s.l.m. (CTR 1:10.000).

Lasciato il Nicciu du Briccu du Broxin, si prosegue in salita lungo la mulattiera, costeggiando poi verso levante tra case abitate e ruderi. Si incontra sulla destra un grande masso con le sembianze dell'altare, privo tuttavia di qualsiasi petroglifo visibile: considerato che è in zona di cave di pietra, è molto più probabile che si tratti di un masso di cava abbandonato. Si piega poi verso ponente fino a giungere alla stazione a valle della teleferica della cava; da qui ci si arrampica per breve ma ripido sentiero alla Rocca di S. Anna, fino a giungere alla spianata che ospita la cappella dedicata alla madre della Vergine. Un sentiero quasi in piano verso W conduce, dopo poche decine di metri alla cava. Dalla cappella si scende per pochi metri verso E e si perviene al riparo sotto roccia.
Siamo qui in uno dei luoghi più interessanti e suggestivi della zona. Il riparo sotto roccia, esplorato ma non scavato durante le campagne del Riparo di Fenestrelle, è stato certamente frequentato nello stesso periodo di quest'ultimo, ossia il Neolitico Medio e Superiore probabilmente dalle stesse persone. Particolarmente significativo il fatto che sul suo "tetto" è stata scavata nella viva roccia una grondaia, fatto rarissimo, presente in Liguria, a quanto risulta finora, nel solo Riparo dei Buoi a Finale Ligure, il quale mostra chiari indizi di essere stato non un insediamento abitativo ma un luogo di culto (Codebò c.s. 1°; Priuli e Pucci 1994, p. 42). Per analogia si può proporre il medesimo utilizzo anche per il Riparo di S. Anna, benché qui manchi del tutto la ricca iconografia incisa nel primo. La stessa sistemazione del riparo con alcune pietre incassate nel suolo - indizio di una certa cura architettonica e di una organizzazione dello spazio - nonostante le esigue dimensioni della camera, inadatta a raccogliere un gruppo numeroso, può deporre, a nostro parere, in tal senso.

Ma vi è anche un ulteriore indizio a favore di un utilizzo prevalentemente rituale del sito. Infatti abbiamo saputo dal Sig. Lorenzo Caviglia, abitante di Alpicella e diacono della chiesa locale, che agli inizi del secolo scorso presso la cappella, allora non esistente, c'era una piccola nicchia votiva scavata in un masso e dedicata a S. Anna; era cura delle famiglie abitanti nella vicina frazione Ceresa provvederla di olio e lume. Accadde un giorno che una donna con il suo bambino, mentre assolveva questa incombenza, precipitò accidentalmente nel dirupo sottostante, circa m. 70 più in basso, restando però entrambi miracolosamente incolumi (sembra che la caduta fosse arrestata sul ciglio o poco sotto da rami o sporgenze). Per grazia ricevuta alcuni decenni dopo, verso la fine del secolo, le famiglie di località Ceresa eressero la cappella in luogo della nicchia, che fu, purtroppo, distrutta.  Ancora oggi si leggono i nomi dei costruttori e le notizie dei rifacimenti successivi e si vede nei pressi un piccolo altare da S. Messa al campo.

La presenza di questo culto agli inizi del secolo scorso, limitato ad un solo gruppo di famiglie di una piccola frazione anziché a tutta la popolazione locale, potrebbe configurarsi come   la continuazione cristiana di una tradizione religiosa molto più antica: il Cristianesimo potrebbe essersi sovrapposto esorcisticamente in un luogo tradizionalmente ritenuto pagano. Il fenomeno è ben noto e documentato in tutta Europa anche attraverso documenti ecclesiastici dell'epoca (Felolo 1991, p. 62; Felolo 1994, pp. 29-31; Priuli e Pucci 1994, pp. 7-9) e pure nel Finalese è stato proposto per parecchi siti, fra i quali la Pietra di Marcello Dalbuono (Codebò c.s. 1°). Purtroppo non ci è stato ancora possibile indagare fino a quando risale nel tempo la memoria storica di questa peculiare tradizione di località Ceresa. Segnaliamo anche il fatto, riferitoci dal Sig. Caviglia, che solo in altre due località della valle del torrente Teiro è attestato il culto di S. Anna, che noi supponiamo introdotto dai frati carmelitani del Convento del Deserto nel XVII secolo, benché sia accertato che la cappelletta in questione non rientrava già dieci anni or sono nelle loro pur numerose officiature locali.

Un'ulteriore caratteristica della Rocca di S. Anna  è la  sua dirupata  soprelevazione  sulla  sottostante conca  di  Alpicella, tanto da indurre qualche autore a paragonarla ad analoghi siti francesi, dove cacciatori del Paleolitico Superiore spingevano e facevano precipitare in dirupi, spaventandoli, branchi di animali e raccogliendone poi le carcasse (Bordo 1991, p. 98). A parte un simile, eventuale utilizzo - del quale, per altro, non v'è al momento traccia alcuna ad Alpicella, oltre al fatto che quasi 15.000 anni separano i locali neolitici dai cacciatori solutreani - certamente questo sperone roccioso mostra tutte le caratteristiche dei luoghi d'altura con funzioni sacrali: la frequentazione umana, i segni del culto, gli elementi del culto (qui: sole e luna, come vedremo), la soprelevazione, la panoramicità, la   dominanza sui terreni sottostanti, (Codebò c.s. 1°).

Forti quindi di queste considerazioni, abbiamo ritenuto utile applicare anche qui i metodi di rilevamento archeoastronomici, anche se in questo caso non ci troviamo certamente di fronte ad allineamenti intenzionali. L'allineamento misurato è stato quello tra l'apertura del riparo e l'antistante vetta del M. Greppino. Questa montagna, come ha sempre riferito il Sig. Mario Fenoglio, ha alcune caratteristiche che la rendono peculiare: è assolutamente brulla, a differenza delle aree circostanti, coperte di abbondante vegetazione; attira i fulmini durante i temporali ed è poco o nulla frequentata dalla gente del posto (non è chiaro se per una sorta di timore o per mancanza di motivazioni).  E' stato possibile accertare che sulla sua vetta vi sono vistosi fenomeni di anomalia magnetica che giungono a deviare l'ago della bussola anche di quasi 180° (Codebò 1997a, p. 327; 1997b). Anche il fatto che il cromlech della Strada Megalitica guardi verso di esso ha fatto ipotizzare che fosse in antico considerato una specie di luogo sacro o tabù, mentre già L. Felolo ha segnalato che dietro la sua cima "...sorge il sole all'alba del solstizio d'inverno..." (Felolo 1991, p. 64).

Abbiamo così constatato che, con un azimut misurato di 21 gradi quattrocentesimali il 06/04/1997 alle ore legali tu 12:09:50 (pari a TU 10:09:50) ed un'altezza osservabile di 0°20', risulta A=131° sulla vetta del Bric Greppino, da cui consegue che il sole al solstizio d'inverno sorge un poco a levante della vetta, in corrispondenza di una falsa sella che essa apparentemente forma con la Costa Sigaa, spartiacque della valle del T. Teiro con quella del T. Arrestra, mentre la luna con D= -28°36' sorge un poco a ponente della vetta. Curiosamente abbiamo notato che i loro prolungamenti sulla carta vanno a cadere, rispettivamente, sulla vetta del Bric Piano delle Donne e sul santuario di N.S. della Guardia, entrambi prospicienti al mare. Il secondo potrebbe essere una delle solite cristianizzazioni di luoghi sacri pagani, mentre il primo sembrerebbe essere legato al sorgere della luna alla sua massima stazione vista dal menhir di Cian da Munega. Tuttavia, sia perché   siamo dubbiosi di quest'ultimo allineamento, come chiariremo oltre, sia perché il Bric Piano delle Donne ed il santuario non sembrano affatto visibili dal Riparo di S. Anna (ma lo sono, invece, dal Bric Greppino!), allo stato attuale delle cose riteniamo queste coincidenze più casuali che intenzionali.
Ci pare quindi di poter proporre con qualche fondamento l'ipotesi che il riparo fosse utilizzato all'epoca come luogo di culto degli astri. L'indagine stratigrafica e palinologica dei paleosuoli (quest'ultima mostrando se la frequentazione del sito fu anche invernale) dovrebbe poter smentire o confermare tale ipotesi.

 

8.4) La roccia a polissoir.

Dalla rocca di S. Anna si prende la larga mulattiera che digrada molto dolcemente verso levante. Già dopo poche decine di metri si incontra un ampio prato acquitrinoso con molte risorgive. Al suo centro vi è un piccolo tumulo erboso, a forma di chiglia di nave, lungo circa m. 2, largo m.1 ed alto altrettanto, che nasconde sotto il manto di erba una struttura in pietre a secco a falsa volta. E' inesplorato e non si sa quale fosse la sua funzione, benché la si possa ipotizzare con una certa verosimiglianza quale ghiacciaia.  Non si può tuttavia tacere la sua presenza in prossimità del sito neolitico.
Procedendo oltre, si incontrano sulla sinistra alcuni grandi massi ammucchiati, parrebbe, per frana; tuttavia uno di essi mostra, con la sua forma allungata e arrotondata, le caratteristiche del menhir abbattuto, come in altri due massi presso la casa Colletta, alla fine di questo percorso. Ancor oltre, presso un rio, un masso tabulare presenta alcune evidenti coppelle.

Quando la mulattiera comincia decisamente a scendere fiancheggiata da una staccionata di legno, scavalcando quest'ultima ed inoltrandosi nel bosco verso S, si perviene al masso a polissoir. E' un affioramento roccioso di circa mq.20 in un pianoro tra una sorgente ed un corso d'acqua.Vi si notano numerose incisioni e coppelle. Le prime sono tutte dello stesso tipo: intagli anche profondi con sezione a V, margini di solito ben netti, con parte centrale più larga ed assottigliamento alle due estremità. Sono stati interpretati come polissoir: segni prodotti dall'affilamento di utensili litici (asce in pietra) o anche metallici, come se ne trovano altrove in Europa (Pucci 1984, p. 5). Ci troveremmo di fronte, così, ad uno dei (tanti) affilatoi delle famose asce neolitiche in pietra verde levigata così tipiche del M. Bèigua (Morelli 1901), esposte al Civico Museo Archeologico di Genova ed al Museo Perrando di Sassello.
Recentemente alcuni autori (Priuli e Pucci 1994, p. 65) hanno messo in dubbio quest'ipotesi sulla base di alcune considerazioni. Personalmente auspichiamo che la specifica (ed a nostro parere più valida) obiezione sull'eccessiva tenerezza di questa roccia per affilare le ofioliti sia verificata sperimentalmente sul posto.
Come segnalato al punto 8.2, sono. con questo. due i massi a polissoir rinvenuti in zona.

 

8.5) Il cosiddetto masso-calendario solare.

Lo si raggiunge deviando un poco dal percorso più avanti descritto. Pur tuttavia, anche percorrendo questo sentiero più alto, si perviene ugualmente alla strada megalitica. Il masso, di forma triangolare, alto m. 1,40, largo m. 1,85, spesso circa cm. 30-40, è stato chiaramente collocato intenzionalmente nella sua attuale giacitura mantenendolo verticale per mezzo di un supporto da tergo in terra e pietre. E' stato chiaramente sagomato. Le tre tacche rettangolari su di un lato assomigliano a quelle scavate per inserire dei cunei di legno nella roccia, i quali, una volta bagnati d'acqua, gonfiano spaccandola con grande precisione.
Visto così come si presenta nella sua attuale posizione, sembrerebbe un termine o pietra di confine, benché del tutto atipico rispetto agli altri della zona.
E' stata proposta la sua funzione di calendario solare perché le sue tre tacche corrisponderebbero a limiti raggiunti stagionalmente dall'ombra del sole al tramonto.
Ritornati indietro si prosegue in discesa fino al bivio presso un rustico in ristrutturazione, presso il quale si svolta a sinistra, dirigendosi decisamente a levante.
 

8.6) La strada a tecnica megalitica - lat. 44°24'16", long.  8°33'26,51" - 8°33'34,44", q.m. 660-680 s.l.m. (I.G.M.I 1:25.000).

Proseguendo, superata una sorgente e poi un bivio per il Bric Greppino con pilone votivo nei pressi, mantenendosi in quota, si perviene prima ad un prato in cui giace abbattuta una pietra oblunga con le caratteristiche del menhir e poi alla "soglia" della strada a tecnica megalitica. E' questa un imponente "viale di pietra" in leggera salita, lungo complessivamente circa m. 200, che si biforca a due terzi della sua lunghezza.

Il tratto sinistro o a monte è bruscamente interrotto dalla strada poderale per Prariondo, ma nella boscaglia al di là di essa sembra potersi scorgere una sorta di continuazione. Significativo in tal senso quanto dichiaratoci un giorno da alcuni escursionisti incontrati sul posto: un geologo genovese non identificato avrebbe riferito durante una lezione universitaria che dall'aereo a bassa quota si percepisce chiaramente la continuazione di questo tratto fino ad un prato panoramico distante un centinaio di metri, nel quale alcuni massi formano un semicerchio. Per quest'ultima loro caratteristica erano già stati sospettati di essere i resti di un cromlech. Ora si aggiunge il fatto che sarebbero uniti alla strada megalitica da massi nascosti nella boscaglia. Riportiamo queste notizie tali quali ci sono state riferite, non avendo avuto la possibilità di effettuare alcuna verifica e, d'altra parte, non sentendoci di tralasciare un dato che potrebbe rivelarsi importante.
Il tratto destro o a valle della strada prosegue quasi rettilineo fino ad un pianoro, dove la sequenza delle pietre-fitte cessa o, piuttosto, piega a destra (SSW) formando un ampio cromlech a botte delimitato da piccole lastre di pietra infisse ad intervalli nel terreno; esso scende abbastanza ripidamente verso una mulattiera sottostante (la cosiddetta "strada scalinata"), al ciglio della quale si interrompe bruscamente. La sua posizione sembra voler indirizzare lo sguardo verso la cima del Bric Greppino, al quale è rivolto.

Il pianoro è il punto più alto della strada, con un dislivello dalla soglia di circa m. +20, panoramicamente aperto verso il mare ed il Golfo di Genova, sullo sfondo del profilo delle Alpi Apuane nei giorni più limpidi; a settentrione, invece, la visuale è totalmente occupata dalla lunga vetta del M. Bèigua; a ponente si stagliano, come detto, il Bric Greppino, il valico dal quale siamo pervenuti (al di là del quale si vede il displuvio orientale della Val Bormida) e le prime pendici del M. Priafaia.
Sul pianoro, oltre il termine della strada, si individua, in senso W-E, un allineamento tra un enorme masso piatto adagiato, un grande affioramento roccioso naturale ed un menhir, abbattuto nel punto in cui il pianoro comincia a digradare verso S ed inizia la strada scalinata verso W. Questo menhir ha forma di piramide tronca molto schiacciata ed è singolare la sua somiglianza, per forma e dimensioni, con il menhir di Cian da Munega sul mare e con quelli coricati del masso a polissoir (supra) e di località Ceresa (infra). Non ci è stato ancora possibile, soprattutto a causa della vegetazione, determinare l'azimut di questo allineamento (che è in direzione circa SE, verso l'orizzonte marino) né il suo angolo rispetto all'asse generale della strada megalitica.

Quest'ultimo fu misurato da G. Romano nel 1994 e risultò giacere con buona approssimazione sull'equinoziale (A=274°), confermando i rilievi di I. Pucci (Pucci 1991, pp. 71-77) e  correggendo  quelli di T. Franzi (Franzi 1977, p. 560).

Noi abbiamo misurato l'orientamento della base oblunga del menhir, sfruttando anche la sua fossa d'impianto nel suolo. Il giorno 02/02/1997, alle ore tu 15:42:25, con lat. 44°24’16”, long. 8°33’34”, q.m. 680 s.l.m., abbiamo misurato un azimut di 42,25 gradi quattrocentesimali. L'azimut risultante, 183°-3°, dimostra  che  l'asse del menhir  giace quasi sulla  meridiana e che è pressoché ortogonale  all'asse della strada (per la precisione il valore da noi ottenuto è la media di otto misurazioni astronomiche). Si noti che l’azimut magnetico misurato fu 182°30’ – 2°30’. Ovviamente tali azimut sono ben lontani dalle amplitudini ortive ed occase del sole e della luna.  Al momento non ne sono stati individuati altri significativi nella complessa struttura della strada.

Certamente l'azimut equinoziale è condizionato dalla morfologia del suolo, ma dobbiamo chiederci perché la strada è stata eretta proprio in quel tratto. Una  risposta  attendibile è che essa inizia, nel suo punto più basso, da un torrentello già in antico, come oggi, incanalato; infatti, se a valle della strada vi è una moderna  vasca di raccolta  in cemento, alcune decine di metri  a monte di essa, invisibile fra l'erba, ve n'è un'antica in pietre a secco. Eppure la sola associazione con l'acqua non basta: infatti in tutte le altre zone "idriche" del monte non vi sono strade simili [una, lunga m. 50, ci è stata successivamente segnalata in Val di Genova (TN) ]. Quindi sembra esservi qualche cosa di più: un percorso che da un torrentello conduce, quasi esattamente da W verso E, ad un pianoro panoramico.
Presso l'acqua la strada inizia bruscamente con due grandi massi che formano una specie di soglia e che distano l'uno dall'altro m. 1,65: pur con tutta la cautela necessaria non possiamo tacere che tale misura corrisponde a due yarde megalitiche - m.0,829 l'una - secondo A. Thom (Hadingham 1978, p. 136; Proverbio 1989, pp. 194-197; Cipolloni Sampò 1990, pp. 26-27; Bahn & Renfrew 1991, pp. 351-352). Dopo un breve tratto, compie un angolo ottuso a sinistra per poi continuare sostanzialmente rettilinea fino all'inizio del pianoro.

Senza entrare nel dettaglio della descrizione, per la quale rimandiamo ai testi ed alle piante degli studi precedenti (Franzi 1977, pp. 559-560; Pucci 1991, pp. 71-77; Pucci 1°; Priuli e Pucci 1994, p. 143, foto nn. 412, 413, 414; Codebò 1997b), dobbiamo soffermarci sulla particolare tecnica costruttiva di una parte dei muri perimetrali, particolarmente nel lato a valle.  Si tratta, infatti, di un sistema basato su massi distanziati infitti verticalmente nel terreno ed intercalati da file orizzontali sovrapposte di pietre a secco, benché tale disposizione non sia presente in tutta quanta la strada. E' stato fatto giustamente notare come questa tecnica costruttiva sia caratteristica del tumulo hallstattiano di Hirschlanden (V secolo a.C.), presso Stuttgart, cosa che potrebbe ricondurre anche la strada megalitica alle citate popolazioni celtiche del IV secolo a.C. (Pucci 1°, pp. 3-4; 1991, p. 76), presumibilmente insediatesi in Alpicella. Tuttavia M. Codebò e L. Felolo fanno notare come tale tipologia risalga assai più indietro nel tempo e lontano nello spazio: ai tumuli   danesi (Halskov Vange, Asnas e Capershoj), svedesi (Gillhog), tedeschi nord-occidentali (Idsted e Karlsminde) ed olandesi (23 strutture, fra cui Schimmeres) del IV-III millennio a.C., vale a dire dell'area megalitica "scandinava" , comprendente lo Sjaelland, lo Schleswig-Holstein ed il Mecklenburg, con estensioni verso W (Cipolloni Sampò 1990, pp. 95-117, foto nn. 161, 162, 163, 164, 180, 187, 188, 200), come pure in Francia ed Inghilterra (Cipolloni Sampò 1990, foto nn. 114, 136, 137). Ancora una volta evidenziamo come questa data corrisponda a quella proposta per alcuni degli altri siti precedentemente descritti: Riparo di Fenestrelle, Riparo di S. Anna, masso a polissoir.
Più in generale, è l'uso stesso dei muri a secco accanto alle "grandi pietre" ad essere ormai ben documentato nel megalitismo, inteso come fenomeno religioso-culturale complesso, ubiquitario e plurimillenario (Cipolloni Sampò 1990, foto nn. 98, 101, 102, 107, 111, 112, 118, 139, 140, 155, 156, 206, 212, 213, 218, 221, 223, 224, 227, 231, 232, 235, 238, 243, 244; Giuggiola 1984, pp. 69; Priuli e Pucci 1994, foto n. 388). Se poi immaginiamo l'intera strada completamente ricoperta di terra (cosa che, tra l'altro, spiegherebbe l'utilizzo di muri così massicci), essa potrebbe avere qualche similitudine morfologica con i lunghi tumuli a cuneo della Kujavia polacca (Cipolloni Sampò 1990, p. 127, foto n. 203).

Sulla base di queste considerazioni non ci pare quindi neppure del tutto impossibile che questo monumento varazzese fosse originariamente una sorta di lungo tumulo ricoperto di terra, benché l'ipotesi del percorso rituale resti certamente la più accreditata. Ci pare invece molto improbabile una sua funzione di trasporto tronchi d'albero in tempi recenti, perché non si capisce in tal caso la sua limitazione a quel solo tratto ed a quella sola zona.

 

8.7) I menhir di località Le Faie

Dal menhir abbattuto si scende verso W ai prati di casa Colletta lungo la strada scalinata. Anche quest'ultima presenta delle peculiarità morfologiche che la fanno ritenere in qualche modo unita all'ambito culturale che ha prodotto la strada megalitica.

E' una larga mulattiera a gradoni, fiancheggiata nella prima metà a monte da una fila di pietre-fitte che terminano con una grossa lastra lapidea infitta nel suolo ortogonalmente, definendo così una sorta di controstrada affiancata e di pari larghezza, della quale non si vede l'utilità pratica. Questa contro-strada termina in corrispondenza di un grande masso roccioso, accanto al quale ve n'è uno più piccolo con una cavità che potrebbe avere ospitato un piccolo riparo sotto-roccia od una sepoltura.  A monte di quest'ultimo complesso si apre il citato cromlech a botte. Attualmente tra esso e la contro-strada vi è soluzione di continuità, ma è da chiedersi se in passato essi non fossero un tutt'uno, giacché il cromlech sembra proprio diretto a terminare sulla strada scalinata. E' evidente, come abbiamo visto per il caso della poderale per Prariondo, che rimaneggiamenti successivi hanno modificato l'aspetto originale del sito!

Terminata la contro-strada, la strada-scalinata scende senza particolari caratteristiche fino alla casa Colletta. Qui si apre un grande prato con due sorgenti e l'antica mulattiera, oggi sommersa dai rovi, che conduceva al Bric Greppino e ad Alpicella. Se invece si gira a sinistra passando davanti alla casa Colletta, si incontrano, presso il ciglio a monte della sterrata, due pietre coricate dalla tipica morfologia dei menhir abbattuti; una terza, di maggiori dimensioni, è nel bosco più in alto (Priuli e Pucci 1994, p. 144, foto n. 416 e 415) e forse una quarta è, a nostro parere, a monte della prima curva, pochi metri più in basso.

Secondo qualcuno, poi, lungo il sentiero segnato che conduce a Le Faie vi sarebbero alcune sepolture a tumulo.

Infine, molto recentemente Italo Pucci ha potuto identificare poco sotto l'abitato di Le Faie un campo nel quale ancor oggi si erge una pietra-fitta purtroppo pericolosamente inclinata  ed in procinto di cadere. A detta degli abitanti del luogo, però, fino ad alcuni decenni or sono vi era un vero allineamento multiplo di pietre-fitte, disgraziatamente abbattute (ed in parte precipitate nel vicino torrente, dove sono ancora visibili) per ricavare terreno coltivabile. Sono ancora viventi coloro che hanno visto questo campo nella sua condizione originaria.

Ci sembra perciò che potremmo trovarci qui di fronte a qualcosa di simile, benché in scala molto minore, agli allineamenti della Bretagna e della Scozia e viene istintivo chiedersi se per caso anche questi varazzesi erano a forma di ventaglio. Può darsi che tracce delle cavità di alloggio siano ancora individuabili con uno scavo stratigrafico, se il dissodamento del suolo non è giunto molto in profondità, considerato che se le pietre erano alte sui m.2-3 come l'unica superstite, la buca d'impianto dovrebbe essere profonda almeno mt.1 e che il dissodamento del terreno agricolo non dovrebbe superare i cm. 60 di profondità. Se così fosse potrebbe forse essere ancora possibile determinare gli azimut degli allineamenti.

Il fatto ci induce però ad un’ovvia considerazione: posto che il megalitismo fu certamente un fenomeno ubiquitario nell'Europa e nel bacino del Mediterraneo nei millenni V - II a.C., con massima fioritura nel III; ritenute valide le considerazioni dell'Ing. G. Innerebner (Innerebner 1959, p.  6); scontato che la penisola italiana vide avvicendarsi sul suo suolo varie civiltà con  ritmo ed incidenza assai più intensi che ogni altra parte del continente (il che, ovviamente, portò ogni nuova civiltà ad  alterare le vestigia di quelle precedenti, specie se erano state oggetto di conquista militare, o comunque a non rispettarle, come del  resto succede ancor oggi !), ci  chiediamo quante aree megalitiche italiane siano state fatte scomparire alla stessa maniera di questo campo per ricavarne terreno da coltivare o materiale da costruzione. Sotto questo diverso punto di vista l'Italia non apparirebbe più come un paese dove il megalitismo ha avuto poca espressione, ma semplicemente come  quello dove esso si è conservato peggio.

Con l'arrivo all'abitato di Le Faie, non più antico del secolo scorso, termina il nostro percorso archeologico.

Nel nostro progetto originario avremmo dovuto inserire anche il menhir di Cian da Munega ai Piani d'I(n)vrea (Garea 1941, pp. 167-172; 1957, p. 4; 1965, pp. 93-98; 1°, p. 6; Mennev‚e 1965, p. 171; Bernardini  1981, pp. 165-167; Priuli e Pucci 1994, p. 142; Codebò 1997b),  praticamente in riva al mare, ma dubbi e  difficoltà insorti durante la ricerca ci impongono ulteriori accertamenti.

 

 

9) CONCLUSIONI.

Questa ricerca non ha potuto essere che, come  sempre, di superficie. Essa si è però avvalsa di tutti i dati disponibili che ci è stato possibile reperire. Come si è visto, derivano da singole  indagini, anche stratigrafiche, e da testimonianze in genere su aspetti parziali o particolari: noi li abbiamo raccolti in quel quadro unico che ci si è via via palesato, plausibile benché non certo nei suoi oseremmo dire numerosi  fattori  comuni. Del resto le certezze in archeologia sono poche e spesso neppure resistenti all'usura del tempo. Perciò la nostra resta un'ipotesi di lavoro e di ciò siamo coscienti, benché la riteniamo abbastanza solidamente fondata. Se poi verremo a capo in senso positivo dei dubbi insorti a proposito del menhir di Cian da Munega, un ulteriore solido tassello si aggiungerà, crediamo, a tali fondamenta.
Abbiamo visto che il M. Bèigua, analogamente al suo gemello M. Bégo, può ormai ritenersi una vera e propria montagna sacra, prima alle divinità pagane dei Liguri preromani, poi al Cristianesimo.

Il  ricordo di queste divinità pagane sarebbe rimasto, oltreché in reperti  materiali,  nella  radice *bek  del nome stesso della montagna e nelle faie e nelle masche menzionate in molti toponimi: fra questi spiccano il M. Priafaia e la località Le Faie dove si snoda gran parte del nostro percorso.
La  presenza dell'uomo preistorico è incontestabilmente dimostrata dai reperti di scavo. Ad essi si affiancano reperti materiali che, pur fuori da un contesto  stratigrafico, si  possono collocare tipologicamente (metodologia valida in questi casi) nello stesso orizzonte culturale.

Alcuni di questi reperti hanno carattere più religioso che pratico (menhir abbattuti ed eretti) e, almeno nel  caso della strada megalitica e, forse, del prato con allineamenti, sono imponenti nell'aspetto e nelle dimensioni.

Quello che non ci aspettavamo ma che si è imposto alla nostra attenzione nel corso dell'indagine, è che potrebbero tutti essere attribuiti alla seconda metà del IV millennio a.C., quando la località fu sicuramente frequentata tutt'altro che sporadicamente.

Infine i dati archeoastronomici ci dicono che il Riparo di S. Anna era frequentato nella stessa epoca forse per il culto del sole e della luna alle loro levate,  rispettivamente, al solstizio invernale ed alla minima stazione, mentre la strada megalitica, anch'essa potenzialmente attribuibile allo stesso periodo per tipologia  costruttiva, venne concepita con due assi ortogonali: l'uno equinoziale, l'altro meridiano. Non scartiamo la possibilità che prossime indagini rivelino ulteriori   allineamenti, più probabili nella stessa strada e nel campo degli  allineamenti (se in quest'ultimo verranno messe in luce le buche di fondazione).
A  fronte di tutti questi dati noi proponiamo di interpretare, con tutte le cautele del caso, la sequenza di reperti che si estendono dal Riparo Fenestrelle fino al campo dei menhir abbattuti (provvisoriamente escludendo per le ragioni suddette il menhir di Cian da Munega) come un percorso rituale.

 

 

10) RINGRAZIAMENTI.

Desideriamo qui ringraziare per la loro partecipazione:

Dott. Filippo Bertolotti

Dott. Ettore Bianchi

Dott.ssa Aurora Cagnana

Sig.ra Elisabetta Casini

Sig. Luigi Felolo

Sig. Italo Pucci

Prof. Giuliano Romano

Sig.ra Floriana Suriosini

Dott. Giuseppe Vicino

e tutte le altre persone o enti che hanno in qualunque modo contribuito a questa ricerca.

Un particolare ringraziamento vada:

1)  alla Civica biblioteca di Varazze che ci ha  messo a disposizione per la consultazione la raccolta degli scritti di Mario Garea;

2)  al  Sig. Lorenzo Caviglia che ci è stato prodigo di tempo e d'informazioni;

3)  al Comune di Varazze che, mediatore il Sig. Fenoglio, ci ha sempre rilasciato i permessi di  transito automobilistico sulla strada poderale per Prariondo;

4) al Sig. Mario Fenoglio, consocio dell'I.I.S.L., che si è sempre prodigato in tutti  i modi  per rendere  possibile questa  nostra ricerca.

 

 

ABBREVIAZIONI BIBLICHE CITATE.

Es:  libro dell'Esodo

Gdc: libro dei Giudici

Gs:  libro di Giosuè

Is:  libro del profeta Isaia

Mt:  Vangelo di Matteo.

Le abbreviazioni usate sono quelle della C.E.I.; secondo le norme ecclesiastiche,  il primo numero indica il capitolo del libro, mentre quello (o quelli) dopo la virgola indica(no) il versetto (o i versetti), separarti dal trattino se consecutivi o da  un  punto in caso diverso.

 

 

BIBLIOGRAFIA.

 

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