I PRIMI PASSI DI UN ARCHEOASTRONOMO
Mario Codebò
Membro IISL, SAIt
Ogni volta che a qualcuno racconto che mi interesso di archeoastronomia,
invariabilmente mi sento porre due domande: che cos'è l'archeoastronomia?
come sono pervenuto ad occuparmene? Alla prima domanda ho già cercato
di rispondere in [1], alla seconda, su sollecitazione dell'amico Riccardo
Balestrieri, rispondo qui.
Galeotto fu il libro I misteri dell'antica Britannia: brutta ed "effettistica"
versione italiana del più serio originale inglese Circles and Standing
Stones, pubblicato nel 1975 da Evan Hadingam, un giornalista scientifico
che ha divulgato i severi studi in materia condotti dai ricercatori anglosassoni,
principalmente Alexander e Archibald Thom (padre e figlio) e Gerald Hawkins.
Non è neppure il caso di menzionare qui la ricca messe di risultati
conseguita da tutti costoro: i curiosi e gli interessati potranno attingere
ad una bibliografia ormai vasta. All’epoca della lettura di questo libro,
nel 1986, mi occupavo ormai da circa quattro anni di paletnologia, soddisfacendo
così una mia antica passione germogliata fin dalla fanciullezza.
Avevo già visitato tutti i principali siti archeologici del Finalese,
percorso tutti i suoi sentieri segnati e mi accingevo ad iscrivermi (come
in effetti feci l’anno successivo) all'Istituto Internazionale di Studi
Liguri, IISL.
La frequentazione della sezione Finalese dell’IISL, presso il Civico
Museo Archeologico di Finale Ligure, mi aveva permesso di scoprire, tra
le varie pubblicazioni, notizie riguardanti presunte strutture di tipo
megalitico (non più di cinque) sparse su tutta la Liguria.
E così, stimolato dalla lettura del testo di Hadingam, più
per interesse verso il megalitismo che verso l’archeoastronomia, andai
a visitare i cosiddetti menhir di Torre Bastìa, nel territorio comunale
di Borgio Verezzi (SV). Confesso, senza falsa modestia, che a prima vista
mi resi conto del possibile allineamento di questa struttura sull’equinoziale.
Così, tornato sul posto con bussola ed altri strumenti, eseguii
le misurazioni necessarie, trovando piena conferma della mia ipotesi.
Negli anni successivi, tornai due volte sul posto agli equinozi per
fotografare il tramonto del Sole sull’allineamento tra la pietra eretta
ed un palo (o una persona) posto ai piedi di quello coricato, dal lato
corrispondente all'allineamento di poco meno i 270° (l’orizzonte visibile,
infatti, è alto circa 60): ne risultarono due complete sequenze
fotografiche che confermano visibilmente l'evento.
Assai meno fortunati furono i tentativi di fotografare, nella direzione
opposta, l’alba equinoziale, perché entrambe le volte in cui dormii
sul posto con la tenda, al mattino la spessa coltre di nubi occultò
il Sole fino a tarda ora. I risultati di questo mio primo studio archeoastronomico
sono stati pubblicati [2].
Fig. 1. Pianta sommaria dei cosiddetti menhìr dì Torre
Bastìa (SV).
In a la pietra naturale tuttora eretta;
in b la pietra attualmente coricata al suolo; in c
il frammento più piccolo ritenuto "spezzatosi" dal frammento maggiore
b al momento della supposta caduta al suolo. La linea curva indica il limite
della sommità collinare. La linea tratteggiata indica l'allineamento
tra la pietra naturalmente eretta e la base “meridionale” di quella coricata;
su tale allineamento si vede tramontare il Sole in una sella apparente
tra la vetta del Monte Carmo di Loano a nord e quella del Bric Ciazzalunga
a sud.
L'azimut 267° corrisponde alla declinazione del Sole
equinoziale con un orizzonte apparente di altezza circa 6°.
Tutta l'area è ricca in superficie di frammenti
ceramici databili a partire dall'Età del Bronzo Medio (fine del
Il millennio a.C.).
Dopo la fruttuosa esperienza con i menhir di Torre Bastia, estesi le
ricerche agli altri "megaliti" segnalati e, successivamente, a quelli che,
via via, con l'intensificarsi delle ricerche di superficie e la collaborazione
tra alcuni ricercatori, venivano alla luce. Fu la volta della pietrafitta
di Tríora (IM), del menhir di Cian da Munega (SV), del bellissimo
dolmen di Verezzi (SV), vicinissimo a Torre Bastía; della pietra
di Marcello Dalbuono, della pietra-altare sopra la grotta Strapatente e
del circolo a tecnica megalìtìca di Camporotondo, tutti nel
Finalese (SV); del complesso di Roccavignale in Val Bormida (SV) e del
menhir di Tramonti (SP), oltreché di un certo numero di incisioni
cruciformi, sempre nel Finalese, che si sono rivelate orientate verso i
quattro punti cardinali, quasi fossero rudimentali rose dei venti.
Fig. 2. Rappresentazioni schematiche, tratte da fotografie, del menhir di Cian da Munega (SV).
In a immagine laterale (da monte a mare);
in b immagine frontale (da oriente a occidente).
La linea tratteggiata indica la direzione verso la quale
probabilmente si vede sorgere la Luna alla sua minima stazione.
E’ possibile che il menhir, attualmente circondato da
strade, facesse parte di un più vasto complesso
oggi del tutto scomparso. E' databile alla prima Età
del Ferro (VII-V secolo a.C.), in base ai reperti affiorati durante un
lavoro di sterro effettuatovi nel secolo scorso.
Recentemente ho misurato anche due strutture cristiane: la chiesa benedettina dell’isolotto di Bergeggi e quella basso-medievale di S. Antonino di Perti: primi tentativi in un settore - quello appunto di età storica - che, benché forse meno affascinante, pure ha rivelato in altre regioni italiane impressionanti implicazioni archeoastronomiche.
Fig. 3. Pianta sommaria della struttura litica a dolmen di Verezzi, sul Monte Caprazoppa (Borgio Verezzi, SV).
In tratto continuo: le lastre di pietra della copertura
e, in parte, delle pareti; in tratteggio: il perimetro della camera interna.
Sono indicate le declinazioni individuate dagli azimut
dei due lati della camera interna, le quali comprendono, come si può
vedere, la declinazione del sorgere della Luna sull'orizzonte marino (visibile
a circa 64 km di distanza dietro la cima della Rocca dell'Orera, a 300
m s.l.m.) alla sua minima stazione, attualmente pari a –28°36'.
Nel 1990 l’amico Guido Cossard organizzò la campagna di misurazioni
sulla necropoli eneolitica (III millennio a.C.) di S. Martin de Corleans,
che la Soprintendenza Archeologica della Valle d'Aosta scavava dal 1961
sotto la direzione del dott. Franco Mezzena. I risultati ottenuti dal prof.
Giuliano Romano furono resi noti in una conferenza tenuta la sera del 29
novembre di quell'anno e pubblicati alcuni mesi dopo [3]. Tuttora essi
costituiscono, per la loro eccezionalità, una pietra miliare nello
studio dell’archeoastronomia europea.
Fig. 4 Pianta schematica dell'allineamento del menhir di Tramonti o
trilite di Schiara (SP).
In a il trilite; b rappresenta
il muro detto “posatoio”; c, un muro di contenimento della
collina soprastante; d, il ciglio del pianoro su cui giace
il complesso; e, lo spazio tra il “posatoio” ed il muro di
contenimento della collina soprastante, nel quale giacciono numerose pietre
affusolate ritenute far parte del supposto cromlech originario; f,
terreno dal quale emergono numerose pietre, due delle quali con fori, ritenute
resti della struttura originaria; g, attuale strada sterrata.
Secondo Manuguerra [4], l'ombra del menhir al tramonto
del solstizio d’inverno - sull'orizzonte marino - divide esattamente a
metà la parte di "posatoio" ritenuta più antica (verso sud-est).
Misure prese nel giugno scorso dal prof. Romano con il teodolite, agli
estremi del muro, hanno dato declinazioni tra –16° e –36°.
Con il passare degli anni e l’intensificarsi degli studi venni in contatto con altri studiosi della materia. Ciò ha consentito, oltre agli scambi di notizie e materiali, anche una "maturazione" del problema in ambito ligure. Infatti, come ho già accennato, agli inizi le ricerche archeoastronomiche suscitarono molta perplessità e talora, in qualcuno, perfino una sorta di ilarità. Ma il moltiplicarsi delle pubblicazioni specifiche, lo svolgimento di ben tre congressi italiani di archeoastronomia, l’eccezionale scoperta del sito di S. Martin de Corleans, hanno costretto anche i più scettici ad alcuni ripensamenti.
Fig. 5. La pietra-fitta della dolina di S. Lorenzo (IM), a 1400 m s.l.m.
(da una fotografia).
In a vista frontale (da sud-sud-ovest);
in b vista laterale (da nord).
La pietra, intenzionalmente sagomata in forma di lastra
carenata, sembra individuare sull'orizzonte visibile delle Alpi Marittime
una piccola sella in cui tramonterebbe il Sole al solstizio d'inverno (linea
tratteggiata in b). La pietra, alta circa 190 cm, larga 60 cm e spessa
1÷20 cm, è infissa nel terreno con un'inclinazione di 40°
sul bordo occidentale di un'ampia e profonda dolina al cui interno esistono
i ruderi di un complesso gias (recinto in pietra a secco per l'alpeggio
degli animali), con ripari sottoroccia ed un masso piatto con una grande
coppella ovale, con canaletto di scolo, da taluni interpretato come masso-altare.
Il luogo è crocevia di sentieri un tempo molto importanti. La sacralità
pagana troverebbe conferma nell'esistenza, sul margine orientale della
dolina, dei ruderi di una cappella dedicata a S. Lorenzo per esorcizzare
e "cristianizzare" il luogo, Secondo Felolo [5] e Magaglio [6], esempi
di questo genere sono molto frequenti in montagna.
Purtroppo sull’archeoastronomia grava sempre la pesante eredità
di precedenti autori che, sovvertendo la metodologia della ricerca scientifica,
affascinati forse dalle loro stesse teorie, hanno lavorato più di
fantasia che di ragione. E' il costante problema di ogni ricercatore del
campo: trovarsi tra l'incudine delle teorie fantascientifiche ed il martello
della diffidenza, talora un po' preconcetta, dei ricercatori più
ortodossi.
Perciò uno dei compiti dello studioso di archeoastronomia diventa,
allo stato attuale delle cose, non solo convincere su una materia ancora
sostanzialmente ignota e del tutto nuova (le cui ricerche sono, di fatto,
ancora ad un vero e proprio stadio “pionieristico”), ma anche creare rigorose
tecniche di misurazione e metodologie capaci di fugare le diffidenze giustamente
generatesi nel passato.
Un secondo problema è costituito dalla dibattuta questione relativa
alla presenza del megalitismo nell'Italia peninsulare in generale, e più
in particolare in Liguria.
Fino a pochi decenni or sono era ferrea dottrina archeologica che la
corrente culturale megalitica non avesse mai varcato la soglia della catena
alpina, considerata una barriera invalicabile. L'Italia peninsulare era
considerata del tutto estranea al fenomeno con l’unica eccezione della
Puglia, i cui menhir, dolmen e "specchie" (tumuli) erano attribuiti a occasionali
navigatori di provenienza balcanica, o comunque ad influenze transadriatiche.
Si ammetteva solo, per il resto della penisola, lo sviluppo della civiltà
dei castellari e, in alcune zone come la nostra Lunigiana, l’Alto Adige
e la Daunia, di quella delle statue stele. Ma il passaggio, per esempio,
dal menhir aniconico alle statue stele, ben documentata altrove, era da
noi del tutto sconosciuto.
Ovviamente già allora si sapeva che le isole del Mediterraneo
avevano seguito un'evoluzione diversa che, in molti casi, le ha portate
a sviluppare una cultura megalitica peculiare ed estremamente ricca.
Per di più, fino all'avvento delle datazioni con radionuclidi
era dottrina archeologica altrettanto ferrea che il megalitismo fosse nato,
come ogni altra manifestazione culturale, nel vicino Oriente - ivi compresa
la Grecia e particolarmente le sue isole egee - e da questa "culla di civiltà"
si fosse diffuso per varie vie - soprattutto fluviali e al seguito dei
mercanti verso l'Europa occidentale. Da questo punto di vista i grandi
complessi inglesi e bretoni erano considerati l’ultima fase, in termini
di spazio e di tempo, di questa corrente culturale e la loro monumentalità
era portata a prova ulteriore di ciò.
Nell'Italia, priva di grandi vie fluviali continentali, si ammetteva
soltanto l’arrivo di popolazioni di naviganti sulle coste dove, occasionalmente,
avrebbero lasciato sporadiche testimonianze, come in Puglia ed in Lunigiana
(quest'ultima per influenza corsa).
Oggi sappiamo come le cose siano andate ben diversamente: il megalitismo
si ritiene nato nell'Europa nord-occidentale e diffuso verso Oriente; ha
seguito sì le maggiori vie fluviali ma anche quelle minori; è
stato più una produzione autoctona a partire, forse, da un'idea
importata, piuttosto che una corrente preconfezionata viaggiante in tutto
il continente.
A mio parere, poi, esso si configura come particolare evoluzione del
rapporto che le società preistoriche ebbero con il materiale a loro
disposizione con la maggiore abbondanza: la pietra.
Nel momento in cui gli strumenti d'uso quotidiano subivano il processo
della microlitizzazione; nel momento in cui i metalli si diffondevano,
relegando la pietra ad un ruolo se non secondario almeno paritario; nel
momento in cui cambiava radicalmente l’economia di sussistenza dalla caccia-raccolta
alla pastorizia-agricoltura e, quindi, anche la tipologia dell’insediamento
passava dai ripari mobili od occasionali del nomade ai villaggi stanziali;
in quel lungo momento la pietra ha forse cessato di essere oggetto d'uso
pratico ed è divenuta “monumento”: funebre o religioso, o politico
- nel senso dell’espressione del potere dei capi - o, infine, militare,
verso la fine dell'età del bronzo, quando si cominciarono a costruire
le città fortificate da mura ciclopiche.
Tanto è vero che le prime manifestazioni del megalitismo - i
tumuli sepolcrali collettivi di Hoedic e Teviec in Bretagna e di Muge in
Portogallo [7] appartengono al mesolitico quando, terminata la glaciazione
di Wurm attorno al X millennio a.C., alcuni gruppi umani costieri cominciarono
a sviluppare un'economia che può collocarsi tra il puro nomadismo
del cacciatore e la netta stanzialità dell’agricoltore: essi divennero
pescatori e raccoglitori di prodotti marini, soprattutto molluschi. Ciò,
se non permetteva ancora di "programmare" la produzione del cibo attraverso
il lavoro costante dei campi, manlevava però dall’obbligo dell'inseguimento
degli animali in migrazione. E non è certamente neppure un caso
che la maggiore concentrazione di complessi megalitici si abbia proprio
lungo le coste.
Ovviamente questa descrizione, che farebbe storcere il naso ad ogni
specialista, è solo una pennellata a grandissime linee di un'evoluzione
durata quasi diecimila anni.
Oggi in Italia, seppure a fatica, comincia a farsi strada fra gli archeologi
la consapevolezza dell'esistenza e dell'importanza degli orientamenti astronomici
nelle culture antiche. Lo testimoniano, fra l'altro, ben tre congressi
internazionali di archeoastronomia, tenutisi a Brugine (PD) nel 1985, a
Venezia nel 1989 e a Roma nel 1994, con la partecipazione di relatori italiani
e stranieri, di archeologi e astronomi.
La Liguria, come purtroppo spesso accade alla nostra regione, è
fino ad ora rimasta, almeno ufficialmente, ai margini.
Data solo al 19/11/1994, in occasione della presentazione di un libro
di Enrico Calzolari [8], la convergenza a La Spezia di pressoché
tutti i ricercatori liguri del settore, tutti volontari non professionisti,
appartenenti a differenti associazioni; erano rappresentate: quattro associazioni
di astrofili, due associazioni archeologiche e due sezioni del Club Alpino
Italiano, il primo ad avere dato spazio a questa ricerca, nel nome della
sua vocazione scientifica, benché certo con compiti istituzionalmente
assai lontani. In quella sede si è preso atto della presenza di
una massa di materiale di studio tale da richiedere ormai un lavoro coordinato
e ben organizzato e della opportunità di incontrarsi nuovamente
in apposite giornate di studio, sia pubbliche che private.
Si cercherà di coinvolgere gli archeologi professionisti e le
rispettive istituzioni e si dovrà affrontare il grave problema della
pubblicazione degli studi condotti: non soltanto in Liguria ma nell’Italia
intera manca tutt'oggi una rivista specializzata nel settore, sì
che le pubblicazioni sono disperse in una molteplicità di testate.
Mancano anche banche dati e canali “fisici” di collegamento.
I passi che fino ad ora sono stati compiuti lasciano, però,
sperare bene.
Bibliografia
[1] M. Codebò, Le cime, i profili, le ombre dei monti: calendari preistorici - Club Alpino Italiano - Rivista della Sezione Ligure, n. 2 (1994).
[2] M. Codebò, I menhir di Torre Bastia, Noliziario C.A.I. Sez. Ligure - Sottosez. Bolzaneto, n. 11 (1993).
[3] G. Cossard, F. Mezzena, G. Romano, Il significato astronomico del sito megalitico di Saint Martin de Corléans ad Aosta (Aosta, Tecnimage, 1991).
[4] M. Manuguerra, Il menhir di Tramonti nel solstizio d’inverno, La Spezia Oggi, 15 (1987), n. I.
[5] L. Felolo, Le streghe di Triora vestali del Sole?, R nì d'aigúra, n. 16 (1991).
[6] G. Magaglio, Le pietre di Teco, R nì d'aigúra, n. 15 (1991).
[7] E. Bernardini, Guida alle civiltà megalitiche (Firenze, Vallecchi, 1977).
[8] E. Calzolari, La comunità di Fabiano. Segni, riti e miti di Indoeuropei, Celti ed Ariani sulle alture del golfo di La Spezia (La Spezia, Luna Editore, 1994).